La “scienza” è conoscenza
“universale”. Questo è il postulato che Kant accetta dalla tradizione
filosofica dell’Occidente: il relativismo e lo scetticismo non sono “scienza”,
anzi nascono e crescono proprio dal bisogno di rifiutare il dogmatismo della
scienza. Kant è impegnato nella ricerca di una “scienza” non dogmatica che
ridefinisca il rapporto fra soggetto e oggetto: in questa ricerca, dopo aver
analizzato le caratteristiche della conoscenza empirica, è necessario trovare
le forme a
priori dell’intelletto e della ragione che garantiscano l’universalità del
sapere.
I. Kant, Critica della ragion
pura, Introduzione alla seconda edizione
I. Della conoscenza pura ed empirica
Non vi è dubbio che la nostra conoscenza cominci con
l’esperienza: poiché altrimenti da che cosa potrebbe essere svegliata in
esercizio la nostra facoltà conoscitiva se ciò non fosse mediante oggetti, che
toccano i nostri sensi e in parte producono da sé rappresentazioni, in parte
mettono in movimento la nostra attività intellettuale, a paragonarli,
connetterli o dividerli, e cosí elaborare la materia prima delle impressioni
sensibili in una conoscenza degli oggetti? Secondo il tempo, dunque, nessuna
conoscenza precede in noi all’esperienza, e ogni conoscenza comincia con
questa.
Ma sebbene ogni nostra conoscenza s’inizi con l’esperienza,
non sorge però, per questo, tutta dall’esperienza. Poiché potrebbe anche essere
che la stessa nostra conoscenza per esperienza fosse un composto di ciò che
riceviamo mediante impressioni e di ciò che la nostra propria facoltà
conoscitiva (semplicemente all’occasione di impressioni sensibili) ci porge da
se stessa: mentre noi non distinguiamo questa aggiunta da quella materia
originaria prima che un lungo esercizio non ce ne abbia fatto attenti, e
disposti alla loro separazione.
Vi è dunque almeno una questione che richiede una piú
stretta ricerca, e da non risolvere cosí a prima vista: se vi sia una simile
conoscenza indipendente dall’esperienza e anche da tutte le impressioni dei
sensi. Siffatte conoscenze si dicono a priori, e si distinguono dalle
conoscenze “empiriche”, che hanno le loro fonti a posteriori, cioè
nell’esperienza.
Delle conoscenze a priori si chiamano poi “pure” quelle a
cui non è mescolato nulla di empirico. Per esempio, la proposizione: ogni
mutamento ha la sua causa, è una proposizione a priori, ma non pura, perché il
mutamento è un concetto che può essere tratto solo dall’esperienza.
II. Noi siamo in possesso di certe conoscenze a priori, e anche l’intelligenza comune non ne è mai priva
Importa qui trattare di un segno, da cui noi possiamo
sicuramente distinguere una conoscenza pura dall’empirica. L’esperienza ci
insegna appunto che qualche cosa è conformata cosí o cosí, ma non come ciò non
possa essere diversamente. Se dunque si trova primamente una proposizione che
venga pensata insieme con la sua necessità, essa è un giudizio a priori: se
essa poi non è inoltre dedotta da nessun’altra, che non sia essa stessa, di
nuovo, valida come una proposizione necessaria, allora essa è assolutamente a
priori.
In secondo luogo: l’esperienza non conferisce mai ai suoi
giudizi vera e rigorosa “universalità”, ma solo presunta o comparativa
(mediante induzione); tanto che si deve dire, propriamente: per quanto noi
abbiamo fin qui percepito, non si trova eccezione a questa o a quella regola.
Se dunque un giudizio è pensato in forma rigorosamente universale, cioè in modo
che non è ammessa la possibilità di nessuna eccezione, allora esso non è ricavato
dall’esperienza, ma valido assolutamente a priori. L’universalità empirica è
dunque una elevazione arbitraria di validità, da quella che vale nella maggior
parte dei casi a quella che vale in tutti. Cosí per esempio nella proposizione:
tutti i corpi sono pesanti. Dove per contro appartiene a un giudizio la
universalità rigorosa, essa addita una sua speciale fonte di conoscenza, e cioè
una facoltà di conoscenza a priori. Necessità e universalità rigorosa sono
dunque sicuri segni di riconoscimento di una conoscenza a priori, e sono anche
inseparabilmente connesse l’una all’altra. Ma poiché nel loro uso è talora piú
facile mostrare che non sono state riscontrate empiricamente piuttosto che
mostrare la contingenza nei giudizi, o altre volte è piú illuminante mostrare
l’universalità illimitata attribuita a un giudizio piuttosto che la sua
necessità, è di conseguenza consigliabile valersi separatamente e
riflessivamente di entrambi i criteri, ciascuno dei quali è per sé infallibile.
Che, ora, simili giudizi a priori, necessari e nel senso
piú stretto universali, quindi puri, siano realmente presenti nella conoscenza
umana è facile da mostrare. Se si vuole un esempio tratto dalle scienze, basta
guardare a tutte le proposizioni della matematica; se si vuole un esempio
tratto dall’uso piú comune dell’intelletto, ci si può servire della
proposizione che afferma che tutti i mutamenti devono avere una causa; in
questa proposizione, anzi, il concetto di causa contiene cosí palesemente il
concetto di una necessità con il collegamento con un effetto e di una rigorosa
universalità della regola che esso andrebbe completamente perduto se lo si
volesse trarre, come faceva Hume, dalla frequente associazione di quel che
accade con quel che lo precede e da una abitudine, che sorge con questa
associazione (dunque da una necessità semplicemente soggettiva), di collegare
rappresentazioni. [...] Dove dovrebbe, infatti, l’esperienza stessa attingere
la propria certezza se tutte le regole secondo le quali essa procede fossero
sempre empiriche, e quindi contingenti, e se di conseguenza difficilmente fosse
possibile farle valere come princípi primi? [...] Non solo in giudizi, però, ma
anche in concetti si mostra una origine a priori in alcuni di essi. Se lasciate
cadere a poco a poco dal concetto che l’esperienza vi dà di un “corpo” tutto
quel che è empirico, il colore, la durezza o la mollezza, la pesantezza e anche
l’impenetrabilità, vi resta pur sempre lo “spazio” che quel corpo (adesso
completamente scomparso) occupava e che non potete lasciar cadere.
(Grande Antologia Filosofica, Marzorati, Milano,
1971, vol. XVII, pagg. 203-205)