Kierkegaard
distingue fra il porsi di fronte ad una verità soggettiva, oppure oggettiva.
Quando la verità è soggettiva il rapporto con essa diviene dialettico. Egli poi
osserva che vi sono due tipi di pensatori, quello soggettivo e quello
oggettivo.
S. Kierkegaard, Postilla conclusiva non
scientifica alle Briciole di filosofia
Ora mostrerò, per chiarire la differenza fra il cammino della riflessione oggettiva e quello della riflessione soggettiva, la ricerca della riflessione soggettiva nel suo cammino all’indietro e verso l’interiorità. Il culmine dell’interiorità in un soggetto esistente è la passione, alla passione corrisponde la verità come paradosso, e il fatto che la verità diventa paradosso è precisamente fondato nel suo rapporto al soggetto esistente. Cosí l’un termine corrisponde all’altro. Se ci si dimentica di essere un soggetto esistente, la passione se ne va, la verità non diventa per compenso qualcosa di paradossale, ma il soggetto conoscente, da uomo che era, diventa un’entità fantastica e la verità un oggetto fantastico per questo conoscere.
Quando si pone il problema della verità in modo oggettivo, si riflette oggettivamente sulla verità come su un oggetto al quale il conoscente si rapporta. Non si riflette sul rapporto, ma sul fatto che è la verità, il vero, ciò a cui ci si rapporta. Quando ciò a cui ci si rapporta è soltanto la verità, il vero, allora il soggetto è nella verità. Quando si pone il problema della verità in modo, soggettivo, si riflette soggettivamente sul rapporto dell’individuo; se: soltanto il “come” del rapporto è nella verità, allora l’individuo è nella verità, anche se a questo modo egli si rapporta alla non-verità. [...] Prendiamo come esempio la conoscenza di Dio. Oggettivamente si riflette sul fatto che c’è il vero Dio; soggettivamente, sul fatto che l’individuo si rapporta a un qualche cosa in modo che il suo rapporto è in verità un rapporto a Dio. Ora, da quale parte si trova la verità? Ahimé, guai a noi se qui facciamo ricorso alla mediazione e diciamo: la verità non sta da nessuna delle due parti, essa è nella mediazione. Risposta eccellente, a patto che qualcuno potesse dire come fa un esistente ad essere nella mediazione, perché essere nella mediazione significa essere compiuto, mentre esistere è divenire. Un esistente non può trovarsi in due posti ad un tempo, essere soggetto-oggetto. Quando egli è ad un pelo per essere ad un tempo in due posti, egli è sotto la passione, ma la passione non si produce che momentaneamente, e la passione è precisamente il vertice della soggettività. L’esistente che sceglie il cammino della soggettività concepisce nello stesso momento tutta questa difficoltà dialettica di dover impiegare qualche tempo, forse un lungo tempo, per trovare Dio oggettivamente; egli comprende questa difficoltà dialettica in tutto il suo dolore, perché egli deve nello stesso momento usare Dio, perché ogni momento in cui egli non ha Dio è sprecato.
[...]
Mentre il pensatore oggettivo è indifferente rispetto al soggetto pensante e alla sua esistenza, il pensatore soggettivo, come esistente essenzialmente interessato al suo proprio pensiero, è esistente in esso. Perciò il suo pensiero ha un’altra specie di riflessione, cioè quella dell’interiorità, della possessione, con cui esso appartiene al soggetto e a nessun altro. Mentre il pensiero oggettivo pone tutto in risultato, e stimola l’intera umanità a barare copiando e proclamando risultati e fatti, il pensiero soggettivo pone tutto in divenire e omette il risultato, in parte perché proprio questo è il compito del pensatore, poiché possiede la via, in parte perché come esistente egli è sempre in divenire, ciò che del resto è ogni uomo che non si è lasciato ingannare a diventare oggettivo, a diventare la speculazione in modo disumano.
Grande Antologia Filosofica, Marzorati, Milano, 1971, vol. XVIII, pagg.
1311-1312 e 1314