Wolfgang Köhler (Reval, Estonia 1887-Nothampton,
Massachusset 1941) in questa conferenza del 1959, nel presentare la storia
della psicologia della Gestalt,
riconduce le sue origini agli studi sulla percezione, iniziati alla fine
dell’Ottocento dallo psicologo austriaco Christian von Ehrenfels (1859-1932) e
poi sviluppati da Max Wertheimer, i cui risultati non potevano essere spiegati
in base al presupposto – allora comunemente accettato – che ogni singola
sensazione fosse determinata da uno stimolo corrispondente; percepiamo infatti
una “configurazione di insieme” o “forma unitaria” – Gestalt – che non è
riducibile a una forma di elementi separati. A derminare la Gestalt sono
i rapporti di reciproca interazione fra i vari oggetti percepiti. Köhler
sottoline a come questa concezione dell’attività psichica contrastasse con
l’associazinismo meccanico con il quale si spiegavano allora tutti i fatti
psicologici. La scoperta di questo principio di organizzazione nel campo percettivo
portò gli psicologi della Gestalt a ricercarne la presenza anche in
campi diversi da quello della percezione, come in quelli della memoria,
dell’apprendimento, del pensiero. Leggi di organizzazione come quelle presenti
nel campo psichico furono viste operare anche nel campo della fisica. Queste
generalizzazioni delle teorie della Gestalt suscitarono l’interesse di
molti esponenti della cultura e della scienza, come ad esempio dai fisici Max
Karl Planck (1858-1947) e Max Born (1882-1970).
W. Köhler, Psicologia della
forma oggi
Vorrei cominciare con qualche rilievo sulla storia della
psicologia della Gestalt: non tutti i capitoli della sua storia sono infatti
egualmente conosciuti. Intorno all’Ottanta gli psicologi europei rimasero molto
colpiti dall’affermazione di von Ehrenfels, secondo la quale sarebbero esistite
migliaia di percezioni (“percepts”), le cui caratteristiche non potevano essere
derivate da quelle delle loro componenti ultime, le cosiddette sensazioni.
Furono citati come esempi gli accordi musicali e le melodie per la percezione
auditiva, le caratteristiche di forma degli oggetti visivi, il carattere del
ruvido e del liscio nelle impressioni tattili, e cosí via. Tutte queste
“qualità formali” hanno una cosa in comune: esse permangono inalterate, anche
se gli stimoli fisici che le determinano vengono variati, in modo però da
mantenerne costanti i rapporti. A quei tempi si riteneva in genere che le
sensazioni fossero singolarmente determinate dai loro rispettivi stimoli, e
dovessero perciò cambiare quando questi ultimi subivano rilevanti
modificazioni. Come era allora possibile, in queste condizioni, che le
caratteristiche della situazione percettiva rimanessero costanti? Donde
provenivano le qualità formali? Le qualità di Ehrenfels non sono ingredienti
arbitrari di questa o quella particolare situazione, che potremmo facilmente
ignorare. A esse appartengono le caratteristiche estetiche, sia positive che
negative, del mondo intorno a noi, e non soltanto quelle degli elementi
ornamentali, dei quadri, delle sculture, delle melodie, e cosí via, ma anche
quelle degli alberi, dei paesaggi, delle case, delle automobili, e delle stesse
persone. Non occorre sottolineare che i rapporti fra i sessi dipendono in
misura notevole da moduli appartenenti alla stessa classe. Benché sia
arrischiato occuparsi di problemi di psicologia come se non esistessero qualità
di questo genere, a cominciare dallo stesso Ehrenfels, gli psicologi non sono
stati capaci di spiegare la loro natura.
Ciò vale anche per coloro che successivamente vennero
chiamati psicologi della Gestalt, incluso chi scrive. Le idee e le indagini di
Wertheimer si svilupparono in una direzione diversa e furono anche piú radicali
di Ehrenfels. Egli non si chiese come siano possibili le qualità formali, benché
la scena percettiva sia fondamentalmente composta da elementi separati. Egli
contestò invece questa premessa, la tesi secondo la quale gli psicologi
avrebbero dovuto cominciare col considerare tali elementi. Egli sentí che da un
punto di vista soggettivo si è portati a ritenere che tutte le situazioni
percettive consistano di componenti molto piccole, tra loro indipendenti, e che
basandosi su questa idea sia possibile ottenere un quadro estremamente chiaro
di ciò che sta al di sotto della superficie dei fatti osservati. Ma come
possiamo sapere se una evidenza soggettiva di questo genere si accorda con la
natura di ciò che abbiamo davanti a noi? Forse noi paghiamo la chiarezza
soggettiva del quadro abituale ignorando tutti i processi, tutte le reciproche
relazioni funzionali che possono aver operato prima che vi sia una scena
percettiva, e che in tal modo influenzano le caratteristiche della scena
stessa. Ci possiamo permettere di imporre alla percezione una estrema
semplicità, che obiettivamente essa non possiede?
Ricordiamo che Wertheimer cominciò a ragionare in questo
modo quando sperimentava in situazioni percettive non statiche, ma con oggetti
visivi che erano in movimento mentre gli stimoli corrispondenti si mantenevano
immobili. Questi “movimenti apparenti”, come li denominiamo oggi, si verificano
quando diversi oggetti visivi appaiono e scompaiono secondo determinati
rapporti temporali. Usando ancora l’attuale modo di esprimersi, in queste
circostanze si verifica una interazione la quale, per esempio, fa apparire un
secondo oggetto estremamente vicino, o addirittura coincidente, con un primo
oggetto che sta scomparendo, cosicché il secondo oggetto può muoversi verso la
sua posizione normale solo quando il primo, e perciò l’interazione, tende di fatto
a vanificarsi. Se questa è interazione, essa non si verifica, in quanto tale,
sulla scena percettiva. In questa scena noi possiamo osservare semplicemente un
movimento. Solo esaminando la situazione fisica possiamo accorgerci che
movimenti di questo genere non corrispondono a movimenti obiettivi degli
oggetti stimolo, e che debbono perciò essere spiegati dalla successione dei due
oggetti. Da ciò consegue che, se il movimento osservato è il risultato
percettivo di una interazione, l’interazione stessa si verifica al di fuori del
campo percettivo. In tal modo il movimento apparente confermò l’idea piú
generale di Wertheimer: noi non possiamo ammettere che la scena percettiva sia
un aggregato di elementi privi di rapporti, poiché i processi che ne stanno alla
base sono già fra loro connessi funzionalmente quando la scena, emergendo, ne
rivela gli effetti.
Wertheimer non forní una spiegazione piú specifica di
carattere fisiologico, e d’altro canto ciò sarebbe stato impossibile in
quell’epoca. Egli si volse in seguito a considerare se le caratteristiche dei
campi percettivi statici siano anch’esse influenzate da interazioni.
È noto il modo in cui egli studiò la formazione di unità
percettive molari, e piú in particolare la formazione di gruppi di oggetti di
questo genere. Le figure usate a questo fine sono riprodotte in un gran numero
di testi. Esse dimostrano in modo evidente che sono i rapporti fra gli
oggetti visivi a decidere quali di essi diventeranno membri di un gruppo e
quali no, e perciò il luogo in cui un gruppo si separa dall’altro. Questo fatto
indica chiaramente che i gruppi percettivi sono determinati da interazioni; e
poiché l’osservatore ingenuo è consapevole esclusivamente del risultato, cioè
dei gruppi percepiti, e non della loro dipendenza da particolari rapporti,
queste interazioni dovrebbero verificarsi ancora una volta fra i processi
sottostanti, anziché nel campo percettivo.
Vorrei aggiungere un ulteriore rilievo su questo primo
stadio di sviluppo della psicologia della Gestalt. In quegli anni, certamente,
gli psicologi della Gestalt non si accontentavano dei fatti di cui si poteva
disporre. Eravamo eccitati da ciò che avevamo scoperto, e ancor piú dalla
prospettiva di trovare altri fatti che ci avrebbero ulteriormente illuminati.
Ma non era solo la stimolante novità della nostra impresa che ci ispirava. Vi
era anche una generale sensazione di sollievo, come se fossimo fuggiti da una
prigione. E la prigione in effetti era la psicologia che veniva insegnata nelle
Università quando eravamo ancora studenti. A quel tempo eravamo stati colpiti
dalla tesi secondo cui tutti i fatti psicologici (e non solo quelli percettivi)
sarebbero consistiti in atomi inerti privi di rapporti, e che i soli fattori
atti a combinare questi atomi, e perciò a introdurre l’azione, sarebbero state
associazioni, formate esclusivamente per contiguità. Ci disturbava il fatto che
questo quadro fosse disperatamente privo di senso, e che la vita umana, in
apparenza cosí piena di colori e di intensa dinamicità, venisse implicitamente
ridotta a un flusso informe e oscuro. Questo non accadeva nella nostra
concezione, e presentivamo che nuove scoperte si sarebbero unite per
distruggere ciò che rimaneva della vecchia concezione. Ben presto altre
scoperte, che furono tutte opera di psicologi della Gestalt, rafforzarono la
nuova corrente. Rubin richiamò l’attenzione sulle differenze tra figura e
sfondo; David Katz provò piú volte il ruolo dei fattori formali nel campo del
tatto e della visione cromatica, e cosí via. Perché tanto interesse proprio per
la percezione? Semplicemente perché in nessun’altra parte della psicologia vi
sono dei fatti disponibili per l’osservazione in modo cosí immediato. Era
speranza comune che, scoperti in questo campo della psicologia i principi
funzionali fondamentali, si potesse provare l’azione e l’importanza di questi
stessi principi in campi diversi, come quello della memoria, dell’apprendimento
e del ricordo. In effetti, Wertheimer e io stesso iniziammo i nostri primi
studi sui processi intellettivi proprio da questo punto di vista; un po’ piú
tardi Kurt Lewin cominciò i suoi studi sulla motivazione che, in parte,
seguivano la stessa linea; applicammo inoltre il concetto di Gestaltung o
di organizzazione alla memoria, all’apprendimento, e al ricordo. E probabilmente
sono familiari a tutti gli sviluppi in America, l'ulteriore analisi del
pensiero condotta da Wertheimer, le ricerche di Asch e di Heider nel campo
della psicologia sociale, il nostro lavoro sulle immagini consecutive e forse
anche quello sulle correnti cerebrali.
Nel frattempo un aiuto inaspettato era venuto dalle scienze
naturali. Per dare un solo esempio: le parti di unità percettive molari spesso
hanno caratteristiche che non manifestano affatto quando sono separate da tali
unità. Entro un’entità visiva maggiore una parte può essere, per esempio, un
angolo di questa entità, un’altra parte il suo contorno o confine, e cosí via.
Ora ciò sembra ovvio; ma nel campo della psicologia nessuno lo aveva visto
prima: lo stesso accade in qualsiasi sistema fisico che comprenda internamente
delle interazioni. Queste interazioni influenzano le parti del sistema, finché
eventualmente, in stato di quiete, le caratteristiche di tutte le parti sono
tali per cui le rimanenti interazioni si equilibrano reciprocamente. Se dunque
i processi nel sistema nervoso centrale seguissero la stessa legge, la
dipendenza dei fatti percettivi locali da condizioni che riguardano entità
maggiori non potrebbe piú essere considerata come un enigma. Confronti di
questo genere hanno incoraggiato molto gli psicologi della Gestalt.
In America può aver sorpreso questo intenso interesse per
la fisica da parte di individui facili all’entusiasmo come gli psicologi della
Gestalt. Si ritiene generalmente che la fisica sia una scienza particolarmente
severa. Eppure questo ci è capitato in modo del tutto naturale. Per intenderci,
i nostri ragionamenti nel campo della fisica non avevano alcuna pretesa di
introdurre modifiche nelle sue leggi, o di introdurre nuove idee. Eppure,
quando confrontammo i dati della nostra ricerca psicologica con il
comportamento di certi sistemi fisici, alcune parti delle scienze naturali
apparvero in una luce diversa. Considerando le leggi della fisica si può
mettere in rilievo questo o quell’aspetto del loro contenuto. Il particolare
aspetto delle formule al quale gli psicologi della Gestalt dedicarono il loro
interesse aveva, per vari decenni, attirato una ben scarsa attenzione. Non si
erano mai commessi errori nell’applicarle, perché ciò che ora ci affascinava
era sempre stato presente nella loro forma matematica. Ma vi è una differenza
fra il rendere esplicito ciò che è contenuto in una formula e il farne uso come
strumento attendibile. Avevamo buone ragioni per essere sorpresi da ciò che
avevamo scoperto; ed è perciò naturale che esultammo quando il nuovo modo di
leggere le formule ci rivelò che l’organizzazione è ovvia in alcune parti della
fisica come in psicologia.
Detto per inciso, vi furono altri non meno interessati a
questo “nuovo modo di leggere” di quanto lo eravamo noi. Queste persone erano
fisici eminenti. Max Planck mi disse una volta che egli si aspettava una
chiarificazione di alcune difficoltà che si erano manifestate proprio allora
nella fisica quantistica, se non addirittura una chiarificazione del concetto
stesso di quantum. Alcuni anni dopo Max Born, il grande fisico che formulò la
meccanica quantistica nei suoi termini attuali, in uno dei suoi scritti
espresse quasi la stessa idea. E solo pochi anni fa, ho letto uno scritto di
Bridgman dell’Università di Harvard, nel quale, si interpreta il famoso
principio di Heisenberg in termini tali che sono tentato di chiamare Bridgman
un fisico della Gestalt.
Novecento filosofico e scientifico, a cura di A. Negri, Marzorati,
Milano, 1993, vol. III, pag. 327-331