Voi dunque avete veduto che, se io nego il predicato di un giudizio insieme col soggetto, non può venire mai una contraddizione interna, sia pure il predicato quale si voglia. Ora non vi resta altro scampo che dire: ci sono soggetti, che non possono assolutamente esser negati, e che dunque devono restare. Ma sarebbe precisamente come dire: ci sono soggetti assolutamente necessari: presupposto, della cui legittimità io ho per l'appunto dubitato, e la cui possibilità voi mi volete dimostrare. Infatti io non mi posso fare il più piccolo concetto di una cosa, che, se fosse negata con tutti i suoi predicati, si lascerebbe dietro una contraddizione; e senza la contraddizione, per via di semplici concetti puri a priori, io non ho nessun carattere della impossibilità.
Contro tutti questi ragionamenti generali (ai quali non c'è uomo che possa ricusarsi) voi mi sfidate con un caso, che arrecate come prova di fatto: che tuttavia c'è un concetto, e questo unico concetto, in cui il non essere, la negazione del suo oggetto è in se stesso contraddittorio: e questo è il concetto dell'Essere realissimo. Esso ha, voi dite, tutte le realtà, e voi siete in diritto di ammettere come possibile un tal essere (ciò che io per ora ammetto, benché il concetto che non si contraddice sia ben lungi dal dimostrare la possibilità dell'oggetto)1. Ma fra tutte le realtà è compresa anche l'esistenza; dunque, nel concetto di un possibile c'è l'esistenza. Ora, se si nega questa cosa, è negata la possibilità interna della cosa; ciò che è contraddittorio.
Io rispondo: voi avete già commessa una contraddizione quando, nel concetto d'una cosa che volete pensare unicamente nella sua possibilità, avete introdotto, sia pure sotto occulto nome, il concetto della sua esistenza. Se vi si concede questo, voi in apparenza avete guadagnato il giuoco, ma in fatto non avete detto niente; perché siete incorsi in una semplice tautologia. Io vi domando: la proposizione questa ? quella cosa (che io vi concedo come possibile, sia qual si voglia) esiste, questa proposizione, dico, è una proposizione analitica ? sintetica? Se è analitica, allora voi, con l'esistenza della cosa, non aggiungete nulla al vostro pensiero della cosa; ma allora ? il pensiero, che è in voi, dovrebbe essere la cosa stessa, ? voi avete supposta un'esistenza come appartenente alla possibilità e poi avete fatto mostra di dedurre l'esistenza dall'intera possibilità. Ciò che non è altro che una misera tautologia. La parola "realtà" che nel concetto della cosa suona altrimenti che "esistenza" nel concetto del predicato, non giova. Perché, se voi dite realtà anche ogni posizione (qualunque cosa poniate), allora voi avete già posto la cosa con tutti i suoi predicati nel concetto del soggetto, e l'avete ammessa come reale, e nel predicato non fate che ripeterla. Se voi riconoscete, al contrario, come discretamente deve ogni essere ragionevole, che ogni giudizio esistenziale è sintetico; come volete asserire, che il predicato dell'esistenza non si possa negare senza contraddizione? Poiché tale prerogativa non spetta propriamente se non ai giudizi analitici, come quelli il cui carattere si fonda appunto su ciò. Io, in verità, spererei di aver ridotto in nulla con una esatta determinazione del concetto di esistenza questa sottile sofisticheria1, se non avessi trovato che l'illusione, nello scambio di un predicato logico con uno reale (cioè della determinazione di una cosa) prevale quasi su qualsiasi ragionamento. Per predicato logico può servire tutto ciò che si vuole, anzi il soggetto si può predicare di se stesso; giacché la logica astrae da ogni contenuto. Ma la determinazione è un predicato, che s'aggiunge al concetto del soggetto, e lo accresce. Essa quindi non vi può essere già contenuta. Essere, manifestamente, non è un predicato reale, cioè un concetto di qualche cosa che si possa aggiungere al concetto di una cosa. Essere è semplicemente la posizione di una cosa ? di certe determinazioni in se stesse. Nell'uso logico è unicamente la copula di un giudizio. Il giudizio: Dio è onnipotente, contiene due concetti, che hanno i loro oggetti: Dio è onnipotenza: la parolina "è" non è ancora un predicato, bensì solo ciò che pone il predicato in relazione col soggetto. Ora, se io prendo il soggetto (Dio) con tutti insieme i suoi predicati (ai quali appartiene anche l'onnipotenza), e dico: Dio è, ? c'è un Dio, io non affermo un predicato nuovo del concetto di Dio, ma soltanto il soggetto in sé con tutti i suoi predicati, e cioè l'oggetto in relazione col mio concetto. Entrambi devono avere esattamente un contenuto identico, e però nulla si può aggiungere di più al concetto, che esprime semplicemente la possibilità, per il fatto di pensare l'oggetto come assolutamente dato (con l'espressione: egli è). E così il reale non viene a contenere niente più del semplice possibile. Cento talleri reali non contengono assolutamente nulla di più di cento talleri possibili. Perché, dal momento che i secondi denotano il concetto, e i primi invece l'oggetto e la sua posizione in sé, nel caso che questo contenesse più di quello, il mio concetto non esprimerebbe tutto l'oggetto, e però anch'esso non ne sarebbe il concetto adeguato. Ma rispetto allo stato delle mie finanze nei cento talleri reali c'è più che nel semplice concetto di essi (cioè nella loro possibilità). Infatti l'oggetto, per la realtà, non è contenuto senz'altro, analiticamente nel mio concetto, ma s'aggiunge sinteticamente al mio concetto (che è una determinazione del mio stato), senza che per questo essere fuori del mio concetto questi cento talleri stessi del pensiero vengano ad essere menomamente accresciuti.
Se io dunque penso una cosa con quali e quanti predicati io voglio (magari nella sua determinazione completa) non s'aggiunge alla cosa stessa il minimo che, pel fatto che io soggiungo ancora: questa cosa è. Perché altrimenti non esisterebbe per l'appunto lo stesso, ma più di quel che io avevo pensato nel concetto; e io non potrei dire che esiste precisamente l'oggetto del mio pensiero. Parimenti, se io in una cosa penso tutte le realtà, eccetto una, non perché dico: una tale cosa difettosa esiste, le si aggiunge la realtà mancante; ma essa esiste precisamente con lo stesso difetto con cui l'ho pensata; altrimenti, esisterebbe qualcos'altro da ciò che io pensavo. Ora, se io mi penso un essere come la Realtà suprema (senza difetto), resta sempre la questione, se esso esista ? no. Giacché, quantunque nel mio concetto non ci manchi nulla del possibile contenuto reale di una cosa in generale, pure ci manca ancora qualcosa nel rapporto con lo stato intero del mio pensiero: ossia, manca che la conoscenza di quell'oggetto sia possibile anche a posteriori. E qui apparisce anche la causa della presente difficoltà. Se si trattasse di un oggetto dei sensi, non potrei scambiare l'esistenza della cosa col semplice concetto della cosa. Infatti, pel concetto, l'oggetto non vien pensato se non come conforme alle condizioni generali di una possibile conoscenza empirica in generale; per l'esistenza, invece, come contenuto nel contesto dell'esperienza totale; se dunque per la connessione del contenuto dell'esperienza totale il concetto dell'oggetto non è menomamente accresciuto, il nostro pensiero, per altro, mediante essa acquista una percezione possibile di più. Al contrario, se noi vogliamo pensare l'esistenza soltanto mediante la categoria pura, nessuna meraviglia che non possiamo fornire nessun carattere per distinguerla dalla semplice possibilità.
Sia quale e quanto si voglia il contenuto del nostro concetto di un oggetto, noi, dunque, dobbiamo sempre uscire da esso, per conferire a questo oggetto l'esistenza. Negli oggetti dei sensi questo accade mediante la connessione con una delle mie percezioni secondo leggi empiriche; ma per gli oggetti del pensiero puro non c'è assolutamente mezzo di conoscere la loro esistenza, poiché questa dovrebbe conoscersi interamente a priori; ma la nostra coscienza di ogni esistenza (o per percezione, immediatamente, ? per ragionamenti, che rannodano qualche cosa alla percezione) appartiene in tutto e per tutto all'unità dell'esperienza; e un'esistenza fuori di questo campo non può certo esser dichiarata assolutamente impossibile, ma è un'ipotesi che non abbiamo modo di giustificare.
Il concetto di un Essere supremo è un'idea per più rispetti molto utile; ma appunto perciò, essendo semplice idea, è affatto incapace di dilatare, soltanto per suo proprio mezzo, la nostra conoscenza rispetto a quello che esiste. Essa non ha tanto potere da istruirci rispetto alla possibilità di una pluralità. Il carattere analitico della possibilità, consistente in questo, che semplici posizioni (realtà) non producono nessuna contraddizione, non può certamente essergli contestato; ma poiché la connessione di tutte le proprietà reali di una cosa è una sintesi, della cui possibilità non ci è dato di giudicare a priori, in quanto che non ci son date specificamente le realtà, e, quand'anche ciò accadesse non ci sarebbe punto di giudizio, perché il carattere della possibilità di conoscenze sintetiche va sempre cercato nell'esperienza, alla quale per altro non può appartenere l'oggetto di una idea, così il celebre Leibniz è rimasto a gran pezza lontano dal fare ciò di cui si lusingava, cioè conoscere a priori la possibilità di un essere così sublimemente ideale. Tutta la fatica e lo studio posto nel tanto famoso argomento ontologico da concetti (cartesiano) dell'esistenza di un Essere supremo sono stati dunque perduti, e un uomo mediante semplici idee potrebbe certo arricchirsi di conoscenze né più né meno di quel che un mercante potrebbe arricchirsi di quattrini se egli, per migliorare la propria condizione, volesse aggiungere alcuni zeri alla sua situazione di cassa.
(I. Kant, Critica della ragion pura, Laterza, Roma-Bari 2000, pp. 380-384)