Secondo il
genero di Marx i “diritti dell’ozio” devono essere considerati piú sacri dei
“Diritti dell’uomo”. Essi impongono di non lavorare piú di tre ore al giorno.
Quando si raggiungerà questo risultato, allora finalmente lavorare sarà un
piacere. Con l’aiuto delle macchine moderne ciò è diventato possibile.
P. Lafargue, Il diritto all’ozio
Queste miserie individuali e sociali, per grandi e innumerevoli che siano, per eterne che appaiano, spariranno come le iene e gli sciacalli all’avvicinarsi del leone, allorché il proletariato dirà: “Lo voglio”. Ma perché pervenga alla coscienza della sua forza, è necessario che il proletariato schiacci sotto i piedi i pregiudizi della morale cristiana, economica, libero-pensatrice; è necessario che ritorni ai suoi istinti naturali, che proclami i Diritti dell’ozio, mille volte piú sacri e piú nobili degli asfittici Diritti dell’uomo, escogitati dagli avvocati metafisici della rivoluzione borghese; che si costringa a non lavorare piú di tre ore al giorno, a non far niente e a far bisboccia per il resto della giornata e della notte.
Fin qui il mio compito è stato facile, non avevo che da descrivere dei mali reali a noi tutti, ahimè, ben noti! Ma convincere il proletario che la parola d’ordine che gli è stata inculcata è perversa, che il lavoro sfrenato al quale si è dato dagli inizi del secolo è il piú tremendo flagello che mai abbia colpito l’umanità, che il lavoro diverrà un complemento del piacere dell’ozio, un benefico esercizio per l’organismo umano, una passione utile all’organismo sociale solo quando sarà saggiamente regolamentato e limitato a un massimo di tre ore al giorno, questo è un compito arduo al di sopra delle mie forze; solo dei fisiologi, degli igienisti, degli economisti comunisti potrebbero affrontarlo. Nelle pagine che seguono, mi limiterò a dimostrare che, dati i mezzi di produzione moderni e la loro illimitata capacità riproduttiva, bisogna reprimere la passione aberrante degli operai per il lavoro e obbligarli a consumare le merci che producono.
P. Lafargue, Il diritto all’ozio,
Feltrinelli, Milano, 1971, pagg. 124-125