Il problema piú grave che si pone
a Leibniz in seguito alla formulazione della teoria delle monadi è quello di conciliare
la non modificabilità delle monadi dall'esterno con la loro capacità di
percepire e di appercepire il divenire del mondo. La cosa può essere spiegata
con il sincronismo perfetto di tutti gli elementi dell'Universo: l'“armonia
prestabilita” da Dio, grazie alla quale la monade sente dentro di sé quello che
accade al di fuori esattamente nel momento e con le modalità in cui ciò accade.
G. W. Leibniz, Lettera ad A.
Arnauld [30 aprile 1687]
È dunque infinitamente piú
ragionevole e piú degno di Dio supporre che egli abbia creato, fin da
principio, la macchina del mondo in modo che, senza violare ad ogni momento le due
grandi leggi della natura, cioè quelle delle forze e della direzione, e
seguendole, anzi, in modo perfetto (eccetto che nel caso dei miracoli), accada
esattamente che i muscoli del corpo siano pronti a lavorare essi stessi come
occorre, nel momento in cui l'anima ha un pensiero o una volizione conveniente,
ch'essa ha avuto, del resto, in conformità degli stati precedenti del corpo, e
che cosí l'unione dell'anima con la macchina del corpo e con le sue parti e
l'azione dell'uno sull'altro consista solo in questa concomitanza che rivela la
saggezza ammirabile del Creatore, molto meglio di ogni altra ipotesi. Non si
può negare che questa ipotesi sia per lo meno possibile e che Dio sia un
artefice cosí abile per poterla attuare; dopo, sarà facile giudicare che questa
ipotesi è la piú probabile, perché è la piú semplice, la piú bella e la piú
intelligibile e perché taglia di un colpo tutte le difficoltà; senza dir nulla
delle azioni malvagie, per le quali sembra piú ragionevole non fare concorrere
Dio, se non per la conservazione delle forze create.
Per servirmi infine di un
paragone dirò che, rispetto alla concomitanza che io sostengo, essa è simile a
quella che ci sarebbe fra diverse orchestre e cori, che eseguano separatamente
le loro parti e siano collocate in modo che non si vedano e neppure si odano e
che, nondimeno, possano accordarsi seguendo le loro note, ciascuna le proprie,
di modo che chi le ascolta, vi trovi un'armonia meravigliosa e molto piú
sorprendente che se vi fosse una connessione fra loro. Potrebbe, anzi, accadere
che uno, ponendosi accanto ad uno dei due cori, giudicasse dall'uno quello che
l'altro esegue, e prendesse una tale abitudine (specialmente se si suppone che
possa ascoltare il proprio, senza vederlo, e vedere l'altro, senza ascoltarlo)
che, con l'aiuto dell'immaginazione, egli non pensi piú al coro in cui si
trova, ma all'altro, oppure che consideri il proprio come un'eco dell'altro,
non attribuendo a quello in cui si trova che taluni intermezzi nei quali non si
manifestano talune regole della sinfonia con le quali giudica l'altro; oppure
attribuendo al proprio certi movimenti, che fa eseguire dal suo lato, secondo
certi motivi che egli crede imitati dagli altri a causa del rapporto con ciò
che egli trova nello sviluppo della melodia, non sapendo che coloro che si
trovano nell'altro coro svolgono in esso qualcosa di corrispondente, secondo i
propri disegni.
(G. W. Leibniz, Scritti
filosofici, UTET, Torino, 1967, vol. I, pagg. 153-154)