Leibniz, L'innatismo virtuale

Leibniz sostiene che ciò che è innato non è necessariamente “in atto”, ma - in accordo con Aristotele - semplicemente “in potenza”. Gli empiristi - e in particolare Locke - portavano l'argomento “dei bambini e degli idioti”: se certe idee fossero innate esse dovrebbero essere presenti anche nella mente dei bambini e degli idioti: il fatto che non vi siano significa che a tali idee manca invece “quel consenso universale che deve necessariamente accompagnare tutte le verità innate” (J. Locke, Saggio sull'intelletto umano, I, 1). Leibniz controbatte che questo modo di argomentare perde ogni validità se le idee innate si considerano come inclinazione, come disposizione a emergere, come virtualità naturale, e che - se non stimolate a manifestarsi - possono restare per sempre in uno stato di latenza.

 

G. W. Leibniz, Nuovi saggi sull'intelletto umano, Prefazione

 

Può darsi che il nostro valente autore [J. Locke] non sia del tutto lontano dalla mia opinione. Infatti, dopo aver impiegato tutto il suo I libro a confutare le idee innate, prese in un certo senso, riconosce tuttavia, all'inizio del II, e in seguito, che le idee che non si originano nella sensazione vengono dalla riflessione: ora, la riflessione non è altro che un'attenzione a ciò che si trova in noi, e i sensi non ci danno affatto ciò che portiamo già in noi medesimi. Ciò posto, come negare che vi siano molte cose innate nella nostra mente, dal momento che noi, per cosí dire, siamo innati a noi stessi, e in noi si trova essere, unità, sostanza, durata, azione, percezione, piacere e mille altri oggetti di nostre idee intellettuali. E poiché questi oggetti sono immediati, e sempre presenti al nostro intelletto (sebbene non sempre siano percepiti, a cagione delle nostre distrazioni e dei nostri bisogni), come meravigliarsi se noi diciamo che queste idee ci sono innate, con tutto ciò che da esse dipende? Talvolta mi son servito anche del paragone di un blocco di marmo venato, diverso da un blocco di marmo tutto unito, o dalle tavolette vuote: ossia, da ciò che i filosofi chiamano tabula rasa. Poiché, se l'anima fosse simile a queste tavolette vuote, le verità sarebbero in noi come la figura d'Ercole in un blocco di marmo, quando il blocco sia assolutamente indifferente a ricevere questa o quella figura. Ma se vi fossero venature nel marmo, tali da segnare la figura di un Ercole a preferenza di altre, quel blocco avrebbe una maggior determinazione, e l'Ercole vi sarebbe, in qualche modo, innato, pur restando necessario un certo lavoro per scoprire le vene e per mettere a nudo la figura, togliendo il soverchio che le impedisce di apparire. È questo il senso in cui le idee e le verità sono innate in noi, come inclinazioni, disposizioni, abitudini o virtualità naturali, e non come azioni: anche se tali virtualità sono sempre accompagnate da una qualche azione corrispondente, spesso insensibile.

 

(Grande Antologia Filosofica, Marzorati, Milano, 1968, vol. XIII, pag. 201)