Leibniz espone i princípi
ispiratori dei Saggi
di Teodicea: con questa opera - oltre a dare fondamento a uno dei cardini
del suo sistema filosofico (l’armonia prestabilita) - egli intende
rispondere sia a quei filosofi che, come Bayle nel Dizionario storico e
critico, avevano chiamato Dio a rendere conto del male dell’uomo, sia a quei
teologi (cattolici e protestanti) che avevano assunto una posizione analoga a
quella di Bayle.
G. W. Leibniz, Saggi di
Teodicea, Prefazione
Taluni [...] non accontentandosi
di servirsi del pretesto della necessità per provare che la virtú e il vizio
non sono né bene né male, hanno l’audacia di far la divinità complice dei loro
disordini, e imitano gli antichi pagani, i quali attribuivano agli dèi la causa
dei loro delitti, come se una divinità li spingesse a mal fare. Questa
confusione sembra sia stata aumentata dalla filosofia dei cristiani, la quale
riconosce meglio di quella degli antichi la dipendenza delle cose dal Primo
Autore, e il suo concorso in tutte le azioni delle creature. Alcune abili
persone del tempo nostro sono arrivate al punto da togliere ogni azione alle
creature; e il Bayle se n’è servito per rimettere in vigore il dogma dimenticato
dei due princípi, o di due divinità, l’una buona, l’altra cattiva, come se
questo dogma soddisfacesse meglio alle difficoltà sull’origine del male;
sebbene, del resto, egli riconosca che è un’opinione insostenibile, e che
l’unità dei princípi è fondata senza contestazione sulla ragione a priori;
ma egli ne vuole inferire che la nostra ragione si confonde e non sarebbe in
grado di soddisfare alle obiezioni e che nondimeno deve stare salda ai dogmi
rivelati, che ci insegnano l’esistenza di un solo Dio, perfettamente buono,
perfettamente potente e perfettamente saggio. Ma molti lettori i quali fossero
persuasi dell’insolubilità di queste obiezioni, e che le credessero per lo meno
altrettanto forti quanto le prove della verità della religione, ne caverebbero
conseguenze perniciose.
Ammesso che non ci sia il
concorso di Dio nelle cattive azioni, non si cesserebbe di portare in campo
delle difficoltà in quanto Egli le prevede e le permette, potendole impedire
mediante la sua onnipotenza. Per questo alcuni filosofi, e persino qualche
teologo, hanno preferito negargli la conoscenza dei particolari delle cose, e
soprattutto dei futuri eventi, piuttosto che attribuirgli ciò che essi
credevano offendesse la sua bontà. [...]
Essi hanno senza dubbio grande
torto, ma non è minore il numero di coloro i quali, persuasi che nulla si
faccia senza la volontà e la potenza di Dio, gli attribuiscono delle intenzioni
e delle azioni assolutamente indegne del sommo e ottimo fra tutti gli esseri,
tanto che si potrebbe dire che questi autori hanno rinunziato in effetti al
dogma il quale riconosce la giustizia e la bontà di Dio. Essi hanno sostenuto
che, essendo Dio il Padrone sovrano dell’Universo, Egli potrebbe, senza alcun
pregiudizio della sua santità, far commettere peccati solo perché cosí gli
piace o per avere il piacere di punire, e perfino che potrebbe prendersi il
piacere di affliggere gli innocenti senza commettere alcuna ingiustizia. Alcuni
sono giunti perfino ad affermare che Dio opera effettivamente cosí, e, sotto il
pretesto che noi siamo nulla in confronto a lui, paragonano gli uomini a quei
vasi di coccio di cui non ci preoccupiamo se nel trasporto si frantumano o, in
generale, agli animali che non sono della nostra specie e non abbiamo scrupolo
di maltrattare.
Io credo che molte di queste
persone, del resto bene intenzionate, giungano a simili pensieri perché non
riflettono abbastanza sulle conseguenze. Essi non si accorgono di distruggere
la giustizia di Dio; perché quale nozione possiamo attribuire a una giustizia simile,
che ha solo la volontà per regola, nella quale, cioè, la volontà non è diretta
dalle regole del bene, e anzi si dirige verso il male? A meno che non sia la
nozione del tiranno data da Trasimaco che, presso Platone [nel I libro della Repubblica],
afferma che il giusto non è altro che ciò che piace al piú potente. Alla
medesima conclusione giungono, senza riflettere, coloro che fondano ogni
obbligazione sulla costrizione e, di conseguenza, assumono la forza come misura
del diritto. Ma certamente si abbandoneranno presto massime cosí strane, e cosí
poco atte a rendere gli uomini buoni e caritatevoli con l’imitazione di Dio,
quando si sarà ben considerato che un Dio che si compiace del male altrui, non
si distinguerebbe dal Principe del male, del quale parlano i manichei, posto
che fosse l’ultimo signore dell’Universo: mentre bisogna attribuire al vero Dio
i sentimenti che lo rendono degno di essere chiamato il Principe buono. [...]
Per fortuna queste teorie
oltranziste non si trovano quasi piú presso i teologi. Tuttavia alcune persone
di spirito, che si compiacciono di sollevar difficoltà, le fanno rivivere,
cercando di aumentare il nostro impaccio con l’aggiungere alle dispute della
filosofia le controversie che nascono dalla teologia cristiana. I filosofi
considerano le questioni della necessità, della libertà e dell’origine del
male; i teologi vi aggiunsero quelle del peccato originale, della grazia e
della predestinazione. La corruzione originale del genere umano, derivante dal
primo peccato, ci sembra aver imposto una necessità naturale di peccare, se non
si ha il soccorso della grazia divina. Ma poiché la necessità è incompatibile
con la punizione, se ne dedurrà che una grazia sufficiente dev’essere concessa
a tutti gli uomini: ciò che non pare troppo conforme all’esperienza.
(Grande Antologia Filosofica,
Marzorati, Milano, 1968, vol. XIII, pagg. 237-239)