Secondo un
antico mito Filomela, dopo aver subito violenza e avere assistito a grandi
atrocità, fu trasformata in usignolo. E cosí il “musico augel” che inizia il
canto al tramonto ha goduto fama di essere esperto delle vicende umane: le sue
note non sarebbero altro che un lamento per la sventura subita e per la triste
condizione degli uomini.
La
consapevolezza scientifica (e filosofica) ha smascherato la fallacia del mito,
ha distrutto l’illusione, ha restituito alla indifferenza della Natura il canto
dell’usignolo che non è mosso da alcun dolore e che nulla ha a che vedere con
il genere umano. Una indifferenza della Natura sempre piú evidente dopo la
caduta delle illusioni del mito (“... poscia che vote / son le stanze d’Olimpo
...”): per tutti, giusti e ingiusti, l’unico destino destino è la fredda
dissoluzione nella morte. Nell’ultima pagina dell’autografo Leopardi annota:
“[...] oggi stante la mancanza delle illusioni, la terra stessa e l’albergo
stesso dei vivi, è divenuto sede di morte, e tutto morto”.
A questo
punto – di fronte all’evidenza del Nulla – Leopardi vuole recuperare
l’illusione degli antichi, la “favella antica”, che non è l’ingenuità del mito,
ma, come le “Favole antiche” del titolo, la capacità comunicativa della fabula
(dal latino for, faris, “io parlo” e, quindi, “io comunico”, “io
esprimo”). La fabula mette l’uomo in comunicazione con la Natura; e
proprio alla Natura si rivolge Leopardi negli ultimi versi per ristabilire il
contatto e il dialogo che la razionalità scientifica sembrava avere interrotto
per sempre: eppure tu vivi, o Natura, e non può non esserci sulla terra, o in
cielo o nelle acque degli oceani qualcosa che, vivendo, rompa la tua
indifferenza e ci degni almeno di uno sguardo.
In questi
versi, accanto ai temi consueti nel pensiero di Leopardi (la consapevolezza del
Nulla, la capacità salvifica dell’illusione) ci sembra compaia quello, meno
usuale, della innocenza della Natura. L’usignolo, spogliato della carica
emotiva attribuitagli dal mito, diventa meno caro agli uomini, ma “di colpa
ignudo”, come la Natura a cui esso è stato restituito, nascosto in fondo a una
valle buia. L’innocenza della Natura carica di enormi responsabilità l’uomo, ma
gli lascia aperta la strada per comunicare con lei, per poterla chiamare
“vaga”, bella. In fondo questa nostra facoltà di fabulare è un suo
dono).
G. Leopardi, Alla Primavera, vv. 69-95
(l822)
69 E te d’umani eventi
70 disse la fama esperto,
71 musco augel che tra chiomato bosco
72 or vieni il rinascente anno cantando,
73 e lamentar nell’alto
74 ozio de’ campi, all’aer muto e fosco,
75 antichi danni e scellerato scorno,
76 e d’ira e di pietà pallido il giorno.
77 Ma non cognato al nostro
78 il gener tuo; quelle tue varie note
79 dolor non forma e te di colpa ignudo,
80 men caro assai la bruna valle asconde.
81 Ahi ahi, poscia che vote
82 son le stanze d’Olimpo, e cieco il tuono
83 per l’atre nubi e le montagne errando,
84 gli iniqui petti e gli innocenti a paro
85 in freddo orror dissolve; e poi ch’estrano
86 il suol nativo, e di sua prole ignaro
87 le meste anime educa;
88 tu le cure infelici e i fati indegni
89 tu de’ mortali ascolta,
90 vaga natura, e a favella antica
91 rendi allo spirto mio; se tu pur vivi,
92 e se de’ nostri affanni
93 cosa veruna in ciel, se nell’aprica
94 terra s’alberga o nell’equoreo seno,
95 pietosa no, ma spettatrice almeno.
(G. Leopardi, Canti, Newton Compton,
Roma, l996, pagg. 55-57)