Leopardi
insiste sulla doppiezza della Natura nei rapporti con l’uomo e con gli altri
organismi viventi; la non consapevolezza della morte è, negli animali,
certamente un male, ma, a confronto con la sorte degli uomini, costituisce la
loro “fortuna”. Nessuna misteriosa legge religiosa (“legge arcana”) o oscura
teoria filosofica (“tenebroso ingegno”) ostacola la vita degli animali, e non
ostacolerebbe nemmeno una loro scelta suicida. All’uomo, invece, gli dèi
contrastano la scelta di morte. Leopardi – a differenza di Schopenhauer –
sostiene la dignità teorica e razionale del suicidio, pur avendolo definito “la
cosa piú mostruosa in natura”.
La Natura
non si oppone agli animali (e ai bruti) che, spinti da disperazione, dolore e
affanno cercassero la morte perché la loro non sarebbe una scelta, bensí il
seguire il corso della natura stessa, di cui l’affanno fa parte. La Natura è
padrona degli inconsapevoli. Il suicidio dell’uomo, invece, si caratterizza
come gesto valoroso, rivolta contro la Natura, desiderio di dominarla, di
sostituirsi ad essa. E la Natura – nella sua piú totale indifferenza per le
vicende umane – non può tollerare nessuna forma di ribellione: “Spiace agli Dei
chi violento irrompe / nel Tartaro. Non fora / tanto valor ne’ molli eterni
petti”, vv. 46-48.
Nel quadro
“idilliaco” della Natura l’uomo rappresenta una eccezione unica, una parte
separata e “abietta”.
La presa
di coscienza di questa frattura incolmabile fra l’uomo e il resto della Natura
porta Leopardi ad assumere una posizione originale rispetto alla tradizionale
riflessione filosofica: filosofia e scienza si sono sempre poste l’obiettivo di
ricomporre l’unità che è venuta meno (vivere in armonia con la Natura oppure
modificare la Natura per renderla armonica con le nostre esigenze); questa è la
“grande illusione” che accomuna Occidente e Oriente. Per Leopardi l’uomo, solo
e “abietto”, può crearsi – con la poesia – una dimensione di conciliazione,
che, però, non sarà mai oggettiva, ma sempre illusoria.
L’illusione consapevole del poeta è l’unico antidoto all’illusione
inconsapevole e presuntuosa del filosofo e dello scienziato.
G. Leopardi, Bruto minore, vv. 6l-75,
9l-l05 (l82l)
61 Di colpe ignare e de’ lor propri danni
62 le fortunate belve
63 serena adduce al non previsto passo
64 la tarda età. Ma se spezzar la fronte
65 ne’ rudi tronchi, o da montano sasso
66 dare al vento precipiti le membra,
67 lor suadesse affanno;
68 al misero desio nella contesa
69 legge arcana farebbe
70 tenebroso ingegno. A voi, fra quante
71 stirpi il cielo avvivò, soli fra tutte,
72 figli di Prometeo, la vita increbbe
73 a voi le morte ripe,
74 se il fato ignavo pende,
75 solo, o miseri, a voi Giove contende.
[...]
91 Ecco tra nudi sassi o in verde ramo
92 e la fera e l’augello,
93 del consueto obblio gravido il petto,
94 l’alta ruina ignora e le mutate
95 sorti del mondo: e come prima il tetto
96 rosseggerà del villanello industre,
97 al mattutino canto
98 quel desterà le valli, e per le balze
99 quella l’inferma plebe
100 agiterà delle minori belve.
101 Oh casi! oh gener vano! abbietta parte
102 siam delle cose; e non le tinte glebe,
103 non gli ululati spechi
104 turbò nostra sciagura,
105 né scolorò le stelle umana cura.
(G. Leopardi, Canti, Newton Compton,
Roma, l996, pagg. 47-49)