Scritte
fra il 14 dicembre 1817 e il 2 gennaio 1818, queste pagine di diario raccontano
l’innamoramento del poeta per “una Signora Pesarese”, Gertrude Cassi, cugina di
Monaldo padre di Giacomo Leopardi. La forma del diario si presta ancora meglio
della composizione poetica al dialogo interiore con se stesso: l’indagine del
proprio io rappresenta per Leopardi la fonte non solo per l’ispirazione
poetica, ma anche per la riflessione sull’uomo in generale.
G. Leopardi, Diario del primo amore
(l8l7-l8l8)
Io cominciando a sentire l’impero della bellezza, da piú d’un anno desiderava di parlare e conversare, come tutti fanno, con donne avvenenti, delle quali un sorriso solo per rarissimo caso gittato sopra di me, mi pareva cosa stranissima e maravigliosamente dolce e lusinghiera: e questo desiderio nella mia forzata solitudine era stato vanissimo fin qui. Ma la sera dell’ultimo Giovedí, arrivò in casa nostra, aspettata con piacere da me, né conosciuta mai, ma creduta capace di dare qualche sfogo al mio antico desiderio, una Signora Pesarese nostra parente piú tosto lontana, di ventisei anni, col marito di oltre a cinquanta, grosso e pacifico, alta e membruta quanto nessuna donna ch’io m’abbia veduta mai, di volto però tutt’altro che grossolano, lineamenti tra il forte e il delicato, bel colore, occhi nerissimi, capelli castagni, maniere benigne e, secondo me, graziose, lontanissime dalle affettate, molto meno lontane dalle primitive, tutte proprie delle Signore di Romagna e particolarmente delle Pesaresi, diversissime, ma per una certa qualità inesprimibile, dalle nostre Marchegiane. Quella sera la vidi, e non mi dispiacque, ma le ebbi a dire pochissime parole, e non mi ci fermai col pensiero. Il Venerdí le dissi freddamente due parole prima del pranzo: pranzammo insieme, io taciturno al mio solito, tenendole sempre gli occhi sopra, ma con un freddo e curioso diletto di mirare un volto piú tosto bello, alquanto maggiore che se avessi contemplato una bella pittura. Cosí avea fatto la sera precedente, alla cena. La sera del Venerdí, i miei fratelli giuocarono alle carte con lei: io invidiandoli molto, fui costretto di giuocare agli scacchi con un altro: mi ci misi per vincere, a fine di ottenere le lodi della Signora (e della Signora sola, quantunque avessi dintorno molti altri) la quale senza conoscerlo, facea stima di quel giuoco. Riportammo vittorie uguali, ma la Signora intenta ad altro non ci badò; poi lasciate le carte, volle ch’io l’insegnassi i movimenti degli scacchi: lo feci ma insieme cogli altri, e però con poco dilette, ma m’accorsi ch’Ella con molta facilità imparava, e non se le confondevano in mente quei precetti dati in furia (come a me si sarebbero senza dubbio confusi) e ne argomentai quello che ho poi inteso da altri, che fosse Signora d’ingegno. Intanto l’aver veduto e osservato il suo giuocare coi fratelli, m’avea suscitato gran voglia di giuocare io stesso con lei, e cosí ottenere quel desiderato parlare e conversare con donna avvenente: per la qual cosa con vivo piacere sentii che sarebbe rimasta fino alla sera dopo. Alla cena, la solita fredda contemplazione. L’indomani nella mia votissima giornata aspettai il giuoco con piacere ma senza affanno né ansietà nessuna: o credeva che ci avrei trovato soddisfazione intera, o certo non mi passò per la mente ch’io ne potessi uscire malcontento. Venuta l’ora giuocai. N’uscii scontentissimo e inquieto. Avea giuocato senza molto piacere, ma lasciai anche con dispiacere, pressato da mia madre. La Signora m’avea trattato benignamente, ed io per la prima volta avea fatto ridere colle mie burlette una dama di bello aspetto, e parlatole, e ottenutone per me molte parole e sorrisi. Laonde cercando fra me perché fossi scontento non lo sapea trovare. Non sentia quel rimorso che spesso, passato qualche diletto, ci avvelena il cuore, di non esserci ben serviti dell’occasione. Mi parea di aver fatto e ottenuto quanto si poteva e quanto io mi era potuto aspettare. Conosceva però benissimo che quel piacere era stato piú torbido e incerto, ch’io non me l’era immaginato, ma non vedeva di poterne incolpare nessuna cosa. E ad ogni modo io mi sentiva il cuore molto molle e tenero, e alla cena osservando gli atti e i discorsi della Signora, mi piacquero assai, e mi ammollirono sempre piú; e insomma la Signora mi premeva molto: la quale nell’uscire capii che sarebbe partita l’indomani, né io l’avrei riveduta. Mi posi in letto considerando i sentimenti del mio cuore, che in sostanza erano inquietudine indistinta, scontento, malinconia, qualche dolcezza, molto affetto, e desiderio non sapeva né so di che, né anche fra le cose possibili vedo niente che mi possa appagare. Mi pasceva della memoria continua e vivissima della sera e dei giorni avanti, e cosí vegliai sino al tardissimo, e addormentatomi, sognai sempre come un febbricitante, le carte il giuoco la Signora; contuttoché vegliando avea pensato di sognarne, e mi parea di aver potuto notare che io non avea mai sognato di cosa della quale avessi pensato che ne sognerei: ma quegli affetti erano in guisa padroni di tutto me e incorporati colla mia mente, che in nessun modo né anche durante il sonno mi poteano lasciare. Svegliatomi prima del giorno (ne piú ho ridormito), mi sono ricominciati, com’è naturale, o piú veramente continuati gli stessi pensieri, e dirò pure che io avea prima di addormentarmi considerato che il sonno mi suole grandemente infievolire e quasi ammorzare le idee del giorno innanzi specialmente delle forme e degli atti di persone nuove, temendo che questa volta non mi avvenisse cosí. Ma quelle per lo contrario essendosi continuate anche nel sonno, mi si sono riaffacciate alla mente freschissime e quasi rinvigorite. E perché la finestra della mia stanza risponde in un cortile che dà lume all’androne di casa, io sentendo passar gente cosí per tempo, subito mi sono accorto che i forestieri si preparavano al partire, e con grandissima pazienza e impazienza, sentendo prima passare i cavalli, poi arrivar la carrozza, poi andar gente su e giú, ho aspettato un buon pezzo coll’orecchio avidissimamente teso, credendo a ogni momento che discendesse la Signora, per sentirne la voce l’ultima volta; e l’ho sentita. Non m’ha saputo dispiacere questa partenza, perché io prevedeva che avrei dovuto passare una trista giornata se i forestieri si fossero trattenuti. Ed ora la passo con quei moti specificati di sopra, e aggiugnici un doloretto acerbo che mi prende ogni volta che mi ricordo dei dí passati, ricordanza malinconica oltre a quanto io potrei dire, e quando il ritorno delle stesse ore e circostanze della vita, mi richiama alla memoria quelle di que’ giorni, vedendomi dintorno un gran voto e stringendomisi amaramente il cuore. Il quale tenerissimo, teneramente e subitamente si apre, ma solo solissimo per quel suo oggetto, ché per qualche altro questi pensieri m’hanno fatto e della mente e degli occhi oltremodo schivo e modestissimo, tanto ch’io non soffro di fissare lo sguardo nel viso sia deforme (che se piú o manco m’annoi, non lo so ben discernere) o sia bello a chicchessia, né in figure o cose tali; parendomi che quella vista contamini la purità di quei pensieri e di quella idea ed immagine spirante e visibilissima che ho nella mente. E cosí il sentir parlare di quella persona, mi scuote e tormenta come a chi si tastasse o palpeggiasse una parte del corpo addoloratissima, e spesso mi fa rabbia e nausea; come veramente mi mette a soqquadro lo stomaco e mi fa disperare il sentir discorsi allegri, e in genere tacendo sempre, sfuggo quanto piú posso il sentir parlare, massime negli accessi di quei pensieri. A petto ai quali ogni cosa mi par feccia, e molte ne disprezzo che prima non disprezzavo, anche lo studio, al quale ho l’intelletto chiusissimo, e quasi anche, benché forse non del tutto, la gloria. E sono svogliatissimo al cibo, la qual cosa noto come non ordinaria in me né anche ndle maggiori angosce, e però indizio di vero turbamento. Se questo è amore, che io non so, questa è la prima volta che io lo provo in età da farci sopra qualche considerazione; ed eccomi di diciannove anni e mezzo, innamorato. E veggo bene che l’amore dev’esser cosa amarissima, e che io purtroppo (dico dell’amor tenero e sentimentale) ne sarò sempre schiavo. Benché questo presente (il quale, come ieri sera quasi subito dopo il giuocare, pensai, probabilmente è nato dall’inesperienza e dalla novità del diletto) son certo che il tempo fra pochissimo lo guarirà: e questo non so bene se mi piaccia o mi dispiaccia, salvo che la saviezza mi fa dire a me stesso di sí. Volendo pur dare qualche alleggiamento al mio cuore, e non sapendo né volendo farlo altrimenti che collo scrivere, né potendo oggi scrivere altro, tentato il verso, e trovatolo restio, ho scritto queste righe, anche ad oggetto di speculare minutamente le viscere dell’amore, e di poter sempre riandare appuntino la prima vera entrata nel mio cuore di questa sovrana passione.
La
Domenica l4 di Decembre l8l7.
Ieri, avendo passata la seconda notte con sonno interrotto e delirante, durarono molto piú intensi ch’io non credeva, e poco meno che il giorno innanzi, gli stessi affetti, i quali avendo cominciato a descrivere in versi ieri notte vegliando, continuai per tutto ieri, e ho terminato questa mattina stando in letto. Ieri sera e questa notte c’ho dormito men che pochissimo, mi sono accorto che quella immagine per l’addietro vivissima, specialmente del volto, mi s’andava a poco a poco dileguando con mio sommo cordoglio, e richiamandola io con grandissimo sforzo, anche perché avrei voluto finire quei versi de’ quali era molto contento, prima d’uscire del caldo della malinconia. Avanti d’addormentarmi ho previsto con gran dispiacere che il sonno non sarebbe stato cosí torbido come le notti passate, e cosí è successo, ed ora tutti quegli affetti sono debolissimi, prima per la solita forza del tempo, massimamente in me, poi perché il comporre con grandissima avidità quei versi, oltre che m’ha e riconciliato un poco colla gloria, e sfruttatomi il cuore, l’avere poi con ogni industria ad ogni poco incitati e richiamati quegli affetti e quelle immagini, ha fatto che questi non essendo piú cosí spontanei si sieno infievoliti. Ma perché essi mi vadano abbandonando, non me ne scema il voto del cuore, anzi piú tosto mi cresce, ed io resto inclinato alla malinconia, amico del silenzio e della meditazione, e alieno dai piaceri che tutti mi paiono piú vili assai di quello c’ho perduto. E insomma io mi studio di rattenere quanto posso quei moti cari e dolorosi che se ne fuggono: per li quali mi pare che i pensieri mi si sieno piú tosto ingranditi, e l’animo fatto alquanto piú alto e nobile dell’usato, e il cuore piú aperto alle passioni. Non però in nessun modo all’amore (se non solamente verso il suo oggetto), che il fastidio d’ogni altra bellezza umana è, posso dire, dei moti descritti di sopra quello che piú vivo e saldo mi si mantiene nella mente. E una delle cagioni di ciò (oltre l’essere ora il mio cuore troppo signoreggiato da un sembiante) come anche di tutta questa mia crisi, è come poi pensando m’è parso di poter affermare, l’impero che, se non fallo, per natura mia, hanno e debbono avere nella mia vita sopra di me due cose. Prima i lineamenti forti (purché sieno misti col delicato e grazioso e non virili), gli occhi e capelli neri, la vivacità del volto, la persona grande: e però io aveva già prima d’ora ma con molta incertezza osservato che le facce languide e verginali e del tutto delicate, capelli o biondi o chiari, statura bassa, maniere smorte, e cosí discorrendo, mi faceano molto poca forza, e forse forse qualche volta niuna, quando queste qualità davano in eccesso, e per avventura in altri facevano piú gran presa. Secondo, le maniere graziose e benigne ma niente affettate, e soprattutto nessun tormento notabile, nessun moto troppo lezioso, nessunissima smorfia, insomma, come di sopra ho detto, le maniere pesaresi, che hanno anche quanto alla grazia e alla vivacità modesta un altro non so che ch’io non posso esprimere, e per questo e per la disinvoltura e la fuga dell’affettazione (almeno in quella di cui scrivo), vantaggiano a cento doppi le marchegiane; le quali ora conosco essere molto piú affettate e smorfiose e meno leggiadre Per queste due cagioni, il guardare o pensare ad altro aspetto (poiché io non vedo né, posso dire, ho veduto altro che marchegiane) mi par che m’intorbidi e imbruttisca la vaghezza dell’idea che ho in mente, di maniera che lo schivo a tutto potere.
Il Martedí
l6 di Decembre l8l7.
Ieri dopo liberatomi dal peso de’ versi, quegli affetti non mi parvero né cosí deboli né cosí vicini a lasciarmi come m’erano paruti la mattina, in ispecie quella dolorosa ricordanza spesso accompagnata da quell’incerto scontento e dispiacere o dubbio di non aver forse goduto bastantemente, che fu il primo sintoma della mia malattia, e che ancor dura, e quasi non so vedere come mi possa passare, eccetto che per la natural forza del tempo non è cosí intenso come da principio, ma né anche cosí indebolito come si potrebbe credere e come io credeva che sarebbe stato. Ieri sera la continua malinconia di tre giorni, la spessa e lunga tensione del cervello, tre notti non dormite, l’inquietudine, il mangiar meno del solito m’aveano alquanto indebolito, e istupiditami la testa; nondimeno io era e sono contento di questo stato di malinconia uguale uguale, e di meditazione, vedendomi anche l’animo piú alto, e non curante delle cose mondane e delle opinioni e dei disprezzi altrui, e il cuore piú sensitivo molle e poetico. Questa notte per la prima volta son tornato al sonno cosí lungo com’è d’ordinario, e ho sognato della solita passione, ma per poco nel fine, e senza turbamento. Oggi durano appresso a poco gl’istessi pensieri e sentimenti di ieri e di ieri sera la stessa svogliatezza al cibo e ad ogni diletto, in particolare alla lettura, e massime di cose d’amore, perché come io non posso vedere bellezze umane reali, cosí né anche descritte, e mi fa stomaco il racconto degli affetti altrui. In genere questa svogliatezza a ogni cosa e specialmente allo studio, mi pare cosí radicata in me, che io non so vedere come ne uscirò, non facendo con piacere altra lettura che quella de’ miei versi su questo argomento, e di queste righe. Alle ragioni del presente mio stato addotte di sopra mi pare che vada aggiunta quella dell’essermi riuscite nuove ed insolite le maniere della Signora, cioè le pesaresi (vedute da me di raro), se bene non conversando io punto mai con donne, parrebbe che anche le maniere marchegiane dovessero riuscirmi pressoché nuove, e però da questa parte non ci fosse ragione perché non m’avessero a fare l’istesso effetto. Nondimeno credo che bisogni fare qualche caso anche di questa osservazione, perché è naturale che la maggior novità mi dovesse riuscire piú grata, ed eccitarmi maggiormente all’attenzione: e mi par poi che la sperienza la confermi.
Il
Mercoledí l7 di Decembre l8l7.
La sera d’avanti ieri mi parve che il mio caro dolore stesse veramente per licenziarsi, e cosí ieri mattina. Tornavami l’appetito, passavami per la mente un pensiero che avrei fatto bene a ripigliare lo studio, pareami d’esser fatto meno restio al ridere e meno svogliato a certi dilettucci della giornata, ricominciava a ragionare tra me stesso cosí di questa come d’altre cose tranquillamente come soglio, di maniera che io con molto dispiacere n’argomentava che presto sarei tornato come prima. I sogni di ieri notte due o tre volte mi mentovarono il solito oggetto, ma per pochissimo e placidamente. Ieri però quasi a un tratto, principalmente per avere udito parlare della Signora, mi riprese l’usata malinconia, e n’ebbi degli accessi cosí forti che quasi mi parea d’esser tornato al principio della malattia. Lo stesso turbamento di stomaco nel sentir parole allegre, lo stesso dolore, la stessa profonda e continua meditazione, e quasi anche la stessa smania e lo stesso affanno, le quali due cose in genere non mi parea d’aver mai provate veramente fuori che la sera e notte del Sabato, tutta la Domenica e (ma già molto rintuzzate) la prima parte del Lunedí. E in verità in questi ultimi giorni non potendo piú la malinconia per cagione del tempo durare tuttavia cosí calda ed intensa come ne’ primi, s’è risoluta in parecchi accessi, ora piú lunghi ed ora meno, ora piú ora meno forti, e talvolta cosí gagliardi che la cedono a pochi di que’ primi. E in particolare mi dura quello scontento, sul quale io riflettendo, m’è paruto d’accorgermi ch’egli appartenga al tempo, cioè che io avrei voluto giuocare piú a lungo; non già che propriamente mi paresse d’aver giuocato poco, o vero meno ch’io non m’aspettava; né pure che mentre ch’io giuocava, fossi contento, e non mi dolesse altro che il dover presto lasciare; né manco finalmente che io giuocando piú a lungo e giuocando un mese e un anno, avessi potuto mai uscirne pago, che m’accorgo bene ch’io non sarei stato mai altro che scontentissimo; ma tuttavia mi pare che questo scontento mi s’affacci alla mente con un colore d’avidità, come se venisse da un desiderio di godere piú a lungo, e da una cieca ingordigia incontentabilissima, che nel tempo del giuoco quanto maggior diletto ci provava tanto piú m’affannava e m’angosciava, quasi che mi facesse fretta di goder di quel bene che presto e troppo presto avrei perduto. Già la sera del Lunedí quella vagheggiatissima immagine del volto, forse per lo averla troppo avidamente contemplata, m’era pressoché del tutto svanita di mente; e quindi in poi con gran cordoglio posso dire di non averla piú veduta, se non come un lampo alle volte di sfuggita e sbiaditissima, e questo, mentre l’immagine del suo compagno ch’io non ricerco per niente, mi si fa innanzi viva freschissima e vegeta sempre ch’io me ne ricordo. Ogni sera, stando in letto e vegliando a lungo, con ogni possibile industria m’adopero di richiamarmi alla mente la cara sembianza, la quale probabilmente per questo appunto ch’io con tanto studio la cerco, mi sfugge, ed io non arrivo a vederne altro che i contorni, e ci affatico tanto il cervello che alla fine mi addormento per forza colla testa annebbiata infocata e dolente. Cosí m’accadde ieri sera, ma questa mattina svegliatomi per tempissimo, in quel proprio punto di svegliarmi, tra il sonno e la veglia spontaneamente m’è passata innanzi alla fantasia la desiderata immagine vera e viva, onde io immediatamente riscosso e spalancati gli occhi, subito le son corso dietro colla mente, e se non sono in tutto riuscito a farla tornare indietro, pure in quella freschezza di mente mattutina, tanto ne ho veduto e osservato e dell’aria del volto, e dei moti e dei gesti e del tratto e dei discorsi e della pronunzia, che non che m’abbia fatto maraviglia l’esserne stato una volta preso, ho anzi considerato che se io avessi quelle cose tuttora presenti alla fantasia, sarei ben piú smanioso e torbido che io non sono. Ora appresso a poco io duro come ne’ giorni innanzi, parendomi che il so lo mio vero passatempo sia lo scrivere queste righe; coll’animo voto o piú tosto pieno di tedio (eccetto nel caldo di quei pensieri), perché non trovo cosa che mi paia degna d’occuparmi la mente né il corpo, e guardando come il solo veramente desiderabile e degno di me quel diletto che ho perduto, o almeno come maggiore di qualunque altro che io mi potrei procacciare, ogni cosa che a quello non mi conduce, mi par vana, e però lo studio (al quale pure di quando in quando ritorno svogliatissimamente e per poco) non m’adesca piú, e non mi sa riempiere il voto dell’animo perché il fine di questa fatica, che è la gloria, non mi par piú quella gran cosa che mi pareva una volta, o certo io ne veggo un’altra maggiore, e cosí la gloria divenuto un bene secondario non mi par da tanto ch’io ci abbia da spender dietro tutta la giornata, distogliendomi dal pensare a quest’altro bene: oltrech’ella per avventura mi pare una cosa piú lontana, e questo in certa guisa piú vicino, forse perché nell’atto di leggere e di studiare non s’acquista gloria ma nell’atto di pensare a quest’altro bene s’acquista quel doloroso piacere, che pure il cuor mio giudica il piú vero e sodo bene ch’io ora possa cercare. Ed anche quando non penso a questo bene, non però mi so risolvere di darmi allo studio, per quella ragione ch’io ho detto, che mi par poco degno di me e poco importante e perché in somma ho in testa un oggetto che piú mi preme, e o ci pensi o non ci pensi, sempre m’impedisce ogni seria applicazione di mente a cosa ch’esso non sia. E però non so vedere come ripiglierò l’antico amore allo studio, perché mi pare che anche passata questa infermità di mente, sempre mi dovrà restare il pensiero che c’è una cosa piú dilettosa che lo studio non è, e che io n’ho fatto una volta lo sperimento.
Il Venerdí
l9 di Decembre l8l7.
Il tempo pigliò avanti ieri sera e tutto ieri gran vantaggio sulla mia passione, la quale va adesso veramente scadendo e mancando, né io ripugnava piú tanto alla lettura, anzi tra la passione e l’amore dello studio, parea che quella a poco a poco scemando tuttavia di peso questo cominciasse a dare il crollo alla bilancia; e ammansato l’animo mio e fatto men severo e nemico de’ piaceruzzi, e accostumatomi a que’ pensieri e però non mi facendo piú quell’effetto, e potendogli assaporare senza inquietudine e con meno diletto e piú tranquillo, e diradati e indeboliti gli accessi di malinconia; l’appetito già dalla sera del Mercoledí cominciatosi a raggiustare, tornavami al suo sesto, ed io quasi ripigliava le costumanze di prima, se ben sempre mi pareva e mi pare che qualche cosa mi manchi, e ch’io potrei star meglio che non istò, e provare un certo diletto che non provo. Ieri mattina svegliatomi, e pensando al solito oggetto, in sul riaddormentarmi m’apparve la desiderata e cercata immagine piú viva assai che il giorno prima, anzi cosí spirante ch’io subito la sentii parlare appuntino come quella persona suole, e come la memoria mia stanca e spremuta non mi sapea né mi sa ricordare; che passati quei pochi minuti ch’io vidi e contemplai e godetti palpitando quella sembianza, con ogni immaginabile studio riconducendola ne’ luoghi ne’ quali avea già veduto l’oggetto reale, e particolarmente nel giuoco; quel fantasma secondo l’usato sparí, né piú mai s’è lasciato vedere se non dilavato e smortissimo. E quando cosí smorto mi si presenta, per l’essermici io avvezzato, come ho detto, non mi turba piú gran cosa: e in oltre anche quando è veramente chiaro e spiccato, m’affanna a quanto meno che ne’ primi giorni, e pare che la mente piú tosto che di tenergli dietro, ami di ricoverarsi m qualche altro suo pensiero gradito (per lo piú degli studi), tra perché ci s’affatica meno, e perché oramai inclina meglio alla calma che alla tempesta. A ogni modo io sento ancora e tutto ieri sentii l’impero di quella dolorosa e scontenta ricordanza ch’è il fondamento e l’anima delle mie malinconie, né par che per ora mi voglia lasciare, contuttoché sia meno amara e meno viva, e mi s’affacci alla mente piú di rado, e ci resti meno a lungo. E piú debole è quando sorge spontaneamente, imperocché piglia piú forza, e mi s’interna maggiormente nell’animo, e arriva anche a turbarmi quando è svegliata da qualche oggetto di fuori, com’è il sentir parlare di quella persona, e il giuocare che mi bisogna far tutte le sere: e in ispecie ieri sera giuocando e ricordandomi bene ch’era l’ottava di quel fatal giorno, presemi gagliardamente quel tristo pensiero, tanto ch’io n’alzai gli occhi verso quella parte dov’era la Signora per guardarla, com’avea fatto in quel turbolento giuocare, quasich’ella ancora ci fosse. E durando il cuor mio piú sensitivo assai dell’ordinario, e sempre sulle mosse, e voglioso di slanciarsi, non è dubbio che la musica, s’io ne sentissi in questi giorni, mi farebbe dare in ismanie e in furori, e ch’io n’impazzirei dagli affetti; e l’argomento cosí dal consueto incredibile potere della musica sopra di me, come dalle spinte che mi davano al cuore certi vilissimi canterellacci uditi a caso in questo tempo. Nei sogni di questa notte ho veduto il doloroso oggetto piú a lungo che i giorni innanzi, e con qualche inquietudine da vantaggio, ma cosí sformato e guasto che la ricordanza del sogno non m’ha punto mosso dopo svegliato.
La
Domenica 2l di Decembre l8l7.
Chiudo oggi queste ciarle che ho fatte con me stesso per isfogo del cuor mio e perché mi servissero a conoscere me medesimo e le passioni; ma non voglio piú farne, perché non si sa quando io mi risolverei di finire e oramai poco potendo dire di nuovo, mi pare ch’io ci perderei il tempo, del quale io soglio far caso, ed è bene che torni a servirmene giacché la passione al tutto non me l’impedisce. La quale già si va dileguando, in tanto che io nelle mie occupazioni ricomincio ad amar l’ordine, quando ne’ giorni addietro non lo curava e piú tosto l’odiava, e m’adatto al ridere, e al pensare di proposito ad altre cose, e allo studiare; eccetto che l’amor dello studio provo di racconciarlo colla passione, proponendo cosí in aria di scrivere qualche cosa dov’io possa ragionare con quella Signora, o introdurla a favellare, e immaginandomi di potere forse una volta divenuto qualche cosa di grande nelle lettere, farmele innanzi in maniera da esserne accolto con piacere e stima. E di questi stessi pensieri mi sono di quando in quando pasciuto anche ne’ dí passati. Io dunque ripiglio il consueto tenore di vita, perché la passione languente non mi sa piú riempiere la giornata; e langue la passione per difetto d’alimento, essendo stata proprio in sul nascere immediatamente strozzata dalla partenza del suo oggetto; laonde finora non s’è nutrita d’altro che di ricordanza e di immagini, delle quali immagini, come ho detto, la fantasia mi s’è da piú giorni impoverita: che certo s’io fossi in luogo dove potessi a mio talento praticare colla Signora, o anche solamente vederla di quando in quando, la passione non che ora languisse, menerebbe gran fiamma, e sarebbe veramente incominciata per me una fila di giorni smaniosissimi e infelici, com’io me ne posso avvedere considerando il tremito e l’inquietudine che mi muove il rappresentarmi un po’ vivamente al pensiero le forme e gli atti della Signora, il che oramai, come ho notato, di rarissimo e per pochissimo mi vien fatto. E cosí ora la passione sarebbe piú vigorosa che non è, se dopo nata avesse avuto spazio di crescere alquanto e di pigliar piede nutrendosi d’altro che di rimembranza: ma di ciò fare non ebbe. come ho raccontato, altro spazio che una mezza sera. Contuttociò ella, nonostanteché langua come un lume a cui l’olio vada mancando, pur tuttavia dura e durerà fors’anche lungo tempo, sempre languendo e facendo vista di spegnersi, e tratto tratto mandando qualche favilluzza, come nelle ore di piú ozio e soprattutto di malinconia, ch’io credo che l’animo mio dovrà per molto spazio risentire a ogni altra sua malattia questa piaghetta rimasta mezzo saldata. Ora di questo lungo solco che la passione partendo mi lascerà nel cuore, e che principalmente consisterà in un certo indistinto desiderio, e scontento delle cose presenti, e in accessi piú o meno lunghi e risentiti della solita lamentevole e tenera ricordanza che in particolare mi sarà destata dagli oggetti esterni (come quelli che ieri specificai), non intendo di scriver piú altro, bastandomi d’aver tenuto dietro agli affetti miei sino al vederli languire, ed esser chiaro del modo nel quale si spegneranno. E quando saranno spenti, caso che io riveda (come penso che rivedrò, e al presente lo desidero) quel fatale oggetto, mi rendo quasi certo che riarderanno violentissimamente; e cosí non dubito che se una volta mi sarà facile, purch’io voglia, di portarmi da me stesso a rivederlo, e molto piú se l’occasione me ne verrà, io tremando e sudando freddo, e biasimando altamente me stesso, e dandomi del pazzo, e compassionandomi senza però dubitare correrò a quel temuto diletto: salvo se la lunghezza del tempo, e piú l’aver conversato con altre donne, e conceputo e provato altri affetti, e veduto piú mondo, e incontrato piú casi non m’avessero affatto sradicata dal cuore questa passione: la qual certo se finora con tanto poco alimento s’è sostenuta, e se piú oltre benché debole si sosterrà, è forza che in gran parte lo riconosca dall’oziosità e dall’eterna medesimezza del mio vivere senza nessuno svagamento né diletto massimamente nuovo. E cosí da quello che ne’ dí passati ho scritto, si fa bastevolmente chiaro ch’ella è nata dall’aver io inespertissimo giuocato e conversato alquanto famigliarmente con una persona d’aspetto piú tosto bello, e di forme e di maniere fatte pel cuor mio; ancorché questa seconda cagione è veramente secondaria, perch’io fo conto che con questa mia inesperienza, un altro bel volto, parlando e praticando nella stessa guisa con me, m’avrebbe similmente preso, anche con tutt’altri atti e sembianze. E ho detto ch’io mi riprenderei di qualunque azione che mi dovesse o risuscitare o rinfrancare questa passione nel cuore, non già perch’io di essa mi vergogni punto; che s’al mondo ci fu mai affetto veramente puro e platonico, ed eccessivamente e stranissimamente schivo d’ogni menomissima ombra d’immondezza, il mio senz’altro è stato tale ed è, e assolutamente per natura sua, non per cura ch’io ci abbia messa, immantinente s’attrista e con grandissimo orrore si rannicchia per qualunque sospetto di bruttura; ma per la infelicità ch’ella partorisce; imperocché, posto che una certa nebbietta di malinconia affettuosa, come quella ch’io negli ultimi giorni ho provata, non sia discara, e anche diletti senza turbarci piú che tanto, non cosi altri può dire di quella sollecitudine e di quel desiderio e di quello scontentamento e di quella smania e di quell’angoscia che vanno col forte della passione, e ci fanno s’alcuna cosa mai tribolati, e miseri. Ed io di questa miseria ho avuto un saggio nella prima sera e ne’ due primi giorni della mia malattia, ne’ quali al presente giudico di avere in fatti propriamente ed intimamente sentito l’amore: e quali sieno stati i sintomi e le proprietà e in somma il carattere di questo primo amor mio, si dichiara in quelle carte ch’io scrissi nel maggior caldo degli affetti; se non che ci puoi aggiugnere un manifesto desiderio di trovare nel mio volto qualcosa che potesse pur piacere: ma questo desiderio non l’ebbi nel primo giorno, nel quale anzi avvertentemente sfuggiva la vista e il pensiero della immagine mia, non altrimenti che facessi delle facce altrui. Del resto tanto è lungi ch’io mi vergogni della mia passione, che anzi sino dal punto ch’ella nacque, sempre me ne sono compiaciuto meco stesso, e me ne compiaccio, rallegrandomi di sentire qualcheduno di quegli affetti senza i quali non si può esser grande, e di sapermi affliggere vivamente per altro che per cose appartenenti al corpo, e d’essermi per prova chiarito che il cuor mio è soprammodo tenero e sensitivo, e forse una volta mi farà fare e scrivere qualche cosa che la memoria n’abbia a durare, o almeno la mia coscienza a goderne, molto piú che l’animo mio era ne’ passati giorni, come ho detto, disdegnosissimo delle cose basse, e vago di piaceri tra dilicatissimi e sublimi, ignoti ai piú degli uomini. Non negherò dunque di avere in questo tempo con ogni cura aiutati e coltivati gli affetti miei, né che da una parte del dispiacere ch’io provava vedendogli a infievolire non venisse dal gusto e dal desiderio ch’io avea di sentire e di amare Ma sempre sincerissimamente detestando ogni ombra di romanzeria, non credo d’aver sentito affetto né moto altro che spontaneo, e non ho in queste carte scritta cosa che non abbia effettivissimamente e spontaneamente sentita: né ho pur mai voluto in questi giorni leggere niente d’amoroso, perché, come ho notato, gli affetti altrui mi stomacavano, ancorché non ci fosse punto d’affettazione; manco il Petrarca, comeché credessi che ci avrei trovato sentimenti somigliantissimi ai miei. Ed anche ora appena con grande stento e ritrosia m’induco a lasciar cadere gli occhi sopra qualche cosa di questo genere, quando me ne capita l’occasione. Ed io so molto bene di parecchi altri effetti che l’amore o talvolta o anche d’ordinario fa; ma perché in me non gli ha fatti, né io gli ho descritti, nonostanteché forse qualche volta n’abbia avuto qualche sentore, ma cosí dubbio o piccolo che non n’ho voluto far caso.
Il Lunedí
e Martedí 22 e 23 di
Decembre l8l7.
Non avendo per l’addietro fatto parola né dato indizio della mia passione a chicchessia, la manifestai a mio fratello Carlo, fattigli leggere i versi e queste carte ai 29 di Decembre, durandomi nell’animo come ancora mi durano oggi 2 di Gennaio l8l8, le vestigia evidentissime degli affetti passati, ai quali non manca per ridar su altro che l’occasione.
(G. Leopardi, Tutte le opere, Sansoni,
Firenze, l9885, vol. I, pagg. 353-359)