Leopardi, Epitteto e gli spiriti deboli

Giacomo Leopardi aveva preparato, nel 1825, per il suo editore, il tipografo Stella di Milano, una traduzione del Manuale di Epitteto che non fu mai pubblicata (nel 1830 l’editore restituí il manoscritto a Leopardi), se non postuma, nel 1845. Il poeta aveva premesso alla traduzione un “Preambolo del volgarizzatore” di cui riportiamo alcuni passi. La filosofia “consolatoria” di Epitteto ci sembra molto lontana dallo “spirito forte” di Leopardi. Il poeta non vuole certo rinunciare alla felicità (anche se in questo senso egli legge l’insegnamento di Epitteto, ma “dopo molti travagli dell’animo e molte angosce, ridotto quasi mal mio grado a praticare per abito il predetto insegnamento, ho riportato di cosí fatta pratica e tuttavia riporto una utilità incredibile”). Lo stoicismo appare a Leopardi l’extrema ratio dopo il fallimento nella ricerca della felicità, una risposta a un dolore invincibile. L’invito di Leopardi al lettore di mettere in atto gli insegnamenti di Epitteto appare, tra le righe, come invito a non rinunciare alla felicità, anche se la non rinuncia implica “molti travagli” e “molte angosce”.

 

         Ora la utilità di questa disposizione [lo stato d’animo “libero da passione”, il “non darsi pensiero delle cose esterne”, la “freddezza” o “indifferenza”], e della pratica di essa nell’uso del vivere, nasce solo da questo, che l’uomo non può nella sua vita per modo alcuno né conseguir la beatitudine né schivare una continua infelicità. [...] È proprio degli spiriti grandi e forti [...] il contrastare, almeno dentro se medesimi, alle necessità, e far guerra feroce e mortale al destino, come i sette a Tebe di Eschilo, e come gli altri magnanimi degli antichi tempi. Proprio degli spiriti deboli di natura [...] il ridursi a desiderare solamente poco, e questo poco ancora rimessamente; anzi, per cosí dire, il perdere quasi del tutto l’abito e la facoltà, siccome di sperare, cosí di desiderare. E dove che quello stato di nimicizia e di guerra con un potere incomparabilmente maggior dell’umano non può aver alcun frutto, e dall’altro lato è pieno di perturbazione, di travaglio, d’angoscia e di miseria gravissima e continua; per lo contrario questo altro stato di pace, e quasi di soggezione dell’animo, e di servitú tranquilla, quantunque niente abbia di generoso, è pur conforme a ragione, conveniente alla natura mortale e libero da una grandissima parte delle molestie, degli affanni e dei dolori di che la vita nostra suole essere tribolata. Ed io, che dopo molti travagli dell’animo e molte angosce, ridotto quasi mal mio grado a praticare per abito il predetto insegnamento, ho riportato di cosí fatta pratica e tuttavia riporto una utilità incredibile, desidero e prego caldamente a tutti quelli che leggeranno queste carte, la facoltà di porlo medesimamente ad esecuzione.

 

(G. Leopardi, Preambolo del volgarizzatore, in Epitteto, Manuale, Rizzoli, Milano, 1996, pagg. 99-101).