Leopardi, quasi ventenne, e vive il suo primo amore. La
poesia che scrive all’interno di quella esperienza è cronologicamente la prima
della raccolta dei Canti, ma nella sistemazione definitiva occuperà il X posto,
dopo L’ultimo canto di Saffo, scritta nel l822, e prima del Passero solitario,
scritta nel l829. Questa collocazione sottolinea come Leopardi riconosca in
essa la presenza di elementi del suo pensiero “maturo”. A una prima lettura
emergono le trepidazioni e delle ansie dell’innamorato: il tremore delle
ginocchia e il non riuscire a prender sonno la notte, il digiuno e l’incapacità
di concentrarsi sul lavoro; addirittura la preoccupazione che il suo sentimento
non sia frainteso dal lettore (“... io giuro / che voglia non m’entrò bassa nel
petto, / ch’arsi di foco intaminato e puro”).
Altre volte Leopardi parla di amori giovanili (A Silvia, Il sogno), ma si tratta di amore che
prende corpo soltanto nel ricordo (o nel sogno, appunto), dopo la morte
dell’amata, alla quale egli si rivolge. Qui l’esperienza è contestuale alla
scrittura: il sommovimento del cuore è in piena attività, l’amata è ancora
sotto lo stesso tetto o lo ha abbandonato da poco, eppure Leopardi non si
rivolge a lei: egli dialoga con il proprio cuore, cioè con se stesso. Leopardi
ventenne sperimenta la dimensione filosofica della poesia: questi versi
costituiscono una analisi dell’amore e del proprio sé attraverso una
riflessione razionale, che però non cancella, ma anzi esalta, la passione
d’amore.
L’amore non è detto all’amata, perché non potrebbe mai
esserle detto nei termini contraddittori in cui è vissuto: verso la persona
amata l’amore è assoluto, totale, incondizionato, è il naufragio nell’infinito;
nel cuore di chi ama l’amore è inquietudine, felicità, miseria (“... inquieto e
felice e miserando”).
E proprio l’esame introspettivo, nel momento in cui l’amore
è fuoco acceso e vivo, porta Leopardi a conclusioni che resteranno costanti
nella sua riflessione filosofica e nella sua produzione poetica: la condanna
alla solitudine, unica dimensione in cui l’illusione può prendere corpo e
l’infinito può essere raggiunto. Da solo nella propria camera – o sull’ermo
colle – il poeta fa vivere l’oggetto del suo desiderio: “Oh come viva in mezzo
alle tenebre / sorgea la dolce imago ...”). Qui alberga il pessimismo profondo
di Leopardi: l’illusione e il sogno che salvano dal Nulla non consentono di
comunicare con gli altri, che sono visti sempre inseriti nel mondo “reale”,
inconsapevolmente illusi o consapevolmente tristi. La consapevolezza
dell’illusione non ammette altro che la “vita solitaria”: “Solo il mio cor
piaceami, e col mio core / in perenne ragionar sepolto, / alla guardia seder
del mio dolore”.
G. Leopardi, Il primo amore
(l9l8)
1 Tornami a mente il dí che la battaglia
2 d’amor sentii la prima volta, e dissi:
3 oimè, se quest’è amor, com’ei travaglia!
4 Che gli occhi al suol tuttora intenti e fissi,
5 io mirava colei ch’a questo core
6 primiera il varco ed innocente aprissi.
7 Ahi come mal mi governasti, amore!
8 Perché seco dovea sí dolce affetto
9 recar tanto desio, tanto dolore?
10 e non sereno, e non intero e schietto,
11 anzi pien di travaglio e di lamento
12 al cor mi discendea tanto diletto?
13 Dimmi, tenero core, or che spavento,
14 che angoscia era la tua fra quel pensiero
15 presso al qual t’era noia ogni contento?
16 Quel pensier che nel dí, che lusinghiero
17 ti si offeriva nella notte, quando
18 tutto queto parea nell’emisfero:
19 tu inquieto, e felice e miserando,
20 m’affaticavi in su le piume il fianco,
21 ad ogni or fortemente palpitando.
22 E dove io tristo ed affannato e stanco
23 gli occhi al sonno chiudea, come per febre
24 rotto e deliro il sonno venia manco.
25 Oh come viva in mezzo alle tenebre
26 sorgea la dolce imago, e gli occhi chiusi
27 la contemplavan sotto alle palpebre!
28 Oh come soavissimi diffusi
29 moti per l’ossa mi serpeano, oh come
30 mille nell’alma instabili, confusi
31 pensieri si volgean! qual tra le chiome
32 d’antica selva zefiro scorrendo,
33 un lungo, incerto mormorar ne prome.
34 E mentre io taccio, e mentre io non contendo,
35 che dicevi, o mio cor, che si partia
36 quella per che penando ivi e battendo?
37 Il cuocer non piú tosto io mi sentia
38 della vampa d’amor, che il venticello
39 che l’aleggiava, volossene via.
40 Senza sonno io giacea sul dí novello,
41 e i destrier che dovean farmi deserto,
42 battean la zampa sotto al patrio ostello.
43 Ed io timido e cheto ed inesperto,
44 ver lo balcone al buio protendea
45 l’orecchio avido e l’occhio indarno aperto,
46 la voce ad ascoltar, se ne dovea
47 di quelle labbra uscir, ch’ultima fosse;
48 la voce, ch’altro il cielo, ahi, mi togliea.
49 Quante volte plebea voce percosse
50 il dubitoso orecchio, e un gel mi prese,
51 e il core in forse a palpitar si mosse!
52 E poi che finalmente mi discese
53 la cara voce al core, e de’ cavai
54 e delle rote il romorio s’intese;
55 orbo rimaso allor, mi rannicchiai
56 palpitando nel letto e, chiusi gli occhi,
57 strinsi il cor con la mano, e sospirai.
58 Poscia traendo i tremuli ginocchi
59 stupidamente per la muta stanza,
60 ch’altro sarà, dicea, che il cor mi tocchi?
61 Amarissima allor la ricordanza
62 locommisi nel petto, e mi serrava
63 ad ogni voce il core, a ogni sembianza.
64 E lunga doglia il sen mi ricercava,
65 com’è quando a distesa Olimpo piove
66 malinconicamente e i campi lava.
67 Ned io ti conoscea, garzon di nove
68 e nove Soli, in questo a pianger nato
69 quando facevi, amor, le prime prove.
70 Quando in ispregio ogni piacer, né grato
71 m’era degli astri il riso, o dell’aurora
72 queta il silenzio, o il verdeggiar del prato.
73 Anche di gloria amor taceami allora
74 nel petto, cui scaldar tanto solea,
75 che di beltade amor vi fea dimora.
76 Né gli occhi ai noti studi io rivolgea,
77 e quelli m’apparian vani per cui
78 vano ogni altro desir creduto avea.
79 Deh come mai da me sí vario fui,
80 e tanto amor mi tolse un altro amore?
81 Deh quanto, in verità, vani siam nui!
82 Solo il mio cor piaceami, e col mio core
83 in un perenne ragionar sepolto,
84 alla guardia seder del mio dolore.
85 E l’occhio a terra chino o in se raccolto,
86 di riscontrarsi fuggitivo e vago
87 né in leggiadro soffria né in turpe volto:
88 che la illibata, la candida imago
89 turbare egli temea pinta nel seno,
90 come all’aure si turba onda di lago.
91 E quel di non aver goduto appieno
92 pentimento, che l’anima ci grava,
93 e il piacer che passò cangia in veleno,
94 per li fuggiti dí mi stimolava
95 tuttora il sen: che la vergogna il duro
96 suo morso in questo cor già non oprava.
97 Al cielo, a voi, gentili anime, io giuro
98 che voglia non m’entrò bassa nel petto,
99 ch’arsi di foco intaminato e puro.
100 Vive quel foco ancor, vive
l’affetto,
101 spira nel pensier mio la
bella imago,
102 da cui, se non celeste,
altro diletto
103 giammai non ebbi, e sol di
lei m’appago.
(G. Leopardi, Canti, Newton
Compton, Roma, l996, pagg. 74-79)