Non ci sono dubbi: si tratta di un sogno e “colei che amore
/ Prima insegnommi” è inesorabilmente morta.
Questa è la certezza da cui parte Leopardi, la certezza della realtà materiale
che non lo abbandona mai. Ma subito dopo la “morta” comincia a vivere: gli
accarezza la testa, sospira e gli parla (vv. ll-l2). In questa dimensione di
vita recuperata anche il poeta parla all’amata. L’illusione è subito spezzata
(“Son morta”, v. 23), ma, sentendo la sua voce, Leopardi si rivolge a lei come se
fosse viva (“Taci, taci”) pur sapendo che è morta (“Dunque sei morta”), e al
tempo stesso non potendo credere che ella non viva piú (v. 47). I due
amanti parlano della morte e del dolore cui sono condannati gli uomini, quindi
il discorso “scivola” sull’amore. Se mai l’amata avesse provato un sentimento
d’amore per il poeta, questi dal ricordo di quel sentimento potrebbe trarre la
forza per vivere, visto è che è vana la speranza nel futuro. Il gioco di
Leopardi è qui estremamente complesso: il sogno fa vivere in maniera illusoria
ciò che non è piú e questa illusione (presente) può creare un passato da usare
come ricordo contro il dolore presente. Il risultato immediato è una presenza
ancora piú viva dell’amata: ora è possibile accarezzarla, baciarla, abbracciarla,
stringerla, sciogliere lo sguardo negli occhi di lei. La verità della morte
irrompe di nuovo (vv. 9l-95) e l’unica possibilità che resta sembra un dolore
sconsolato e un grido di angoscia. Eppure, anche alla luce del sole nascente –
svanito il sogno – “Ella negli occhi / pur mi restava [...] / vederla io mi
credeva ancor”.Fra le “carte napoletane” di Leopardi si trova una pagina (b)
datata 3 dicembre l820 e immediatamente ricollegabile al Il sogno. Di
essa ci preme sottolineare una considerazione: “non sappiamo accordare la sua
morte con la sua presenza”. Si tratta della contraddizione insanabile, cui
abbiamo accennato piú volte, fra realtà e illusione, ma è allo stesso tempo una
contraddizione ineliminabile dalla vita dell’uomo: solo la poesia può momentaneamente
ricomporla fondendo nel sentimento poetico consapevole i due poli
dell’opposizione.
a) G. Leopardi, Il sogno (l82l)
1 Era il mattino, e tra le chiuse
imposte
2 per lo balcone insinuava il sole
3 nella mia cieca stanza il primo
albore;
4 quando in sul tempo che piú leve
il sonno
5 e piú soave le pupille adombra,
6 stettemi allato e riguardommi in
viso
7 il simulacro di colei che amore
8 prima insegnommi, e poi lasciommi
in pianto.
9 Morta non mi parea, ma trista, e
quale
10 degl’infelici è la sembianza. Al
capo
11 appressommi la destra, e
sospirando,
12 vivi, mi disse, e ricordanza
alcuna
13 serbi di noi? Donde, risposi, e
come
14 vieni, o cara beltà? Quanto, deh
quanto
15 di te mi dolse e duol: né mi
credea
16 che risaper tu lo dovessi; e questo
17 facea piú sconsolato il dolor
mio.
18 Ma sei tu per lasciarmi un’altra
volta?
19 Io n’ho gran tema. Or dimmi, e
che t’avvenne?
20 Sei tu quella di prima? E che ti
strugge
21 internamente? Obblivione ingombra
22 i tuoi pensieri, e gli avviluppa
il sonno;
23 disse colei. Son morta, e mi
vedesti
24 l’ultima volta, or son piú lune.
Immensa
25 doglia m’oppresse a queste voci
il petto.
26 Ella seguí: nel fior degli anni
estinta,
27 quand’è il viver piú dolce, e
pria che il core
28 certo si renda com’è tutta
indarno
29 l’umana speme. A desiar colei
30 che d’ogni affanno il tragge, ha
poco andare
31 l’egro mortal; ma sconsolata
arriva
32 la morte ai giovanetti, e duro è
il fato
33 di quella speme che sotterra è
spenta.
34 Vano è saper quel che natura
asconde
35 agl’inesperti della vita, e molto
36 all’immatura sapienza il cieco
37 dolor prevale. Oh sfortunata, oh
cara,
38 taci, taci, diss’io, che tu mi
schianti
39 con questi detti il cor. Dunque
sei morta,
40 o mia diletta, ed io son vivo, ed
era
41 pur fisso in ciel che quei sudori
estremi
42 cotesta cara e tenerella salma
43 provar dovesse, a me restasse
intera
44 questa misera spoglia? Oh quante
volte
45 in ripensar che piú non vivi, e
mai
46 non avverrà ch’io ti ritrovi al
mondo,
47 creder nol posso. Ahi ahi, che
cosa è questa
48 che morte s’addimanda? Oggi per
prova
49 intenderlo potessi, e il capo
inerme
50 agli atroci del fato odii
sottrarre.
51 Giovane son, ma si consuma e
perde
52 la giovanezza mia come
vecchiezza;
53 la qual pavento, e pur m’è lunge assai.
54 Ma poco da vecchiezza si discorda
55 il fior dell’età mia. Nascemmo al
pianto,
56 disse, ambedue; felicità non rise
57 al viver nostro; e dilettossi il
cielo
58 de’ nostri affanni. Or se di
pianto il ciglio,
59 soggiunsi, e di pallor velato il
viso
60 per la tua dipartita, e se
d’angoscia
61 porto gravido il cor; dimmi:
d’amore
62 favilla alcuna, o di pietà,
giammai
63 verso il misero amante il cor
t’assalse
64 mentre vivesti? Io disperando
allora
65 e sperando traea le notti e i
giorni;
66 oggi nel vano dubitar si stanca
67 la mente mia. Che se una volta
sola
68 dolor ti strinse di mia negra
vita,
69 non mel celar, ti prego, e mi
soccorra
70 la rimembranza or che il futuro è
tolto
71 ai nostri giorni. E quella: ti
conforta,
72 o sventurato. Io di pietade avara
73 non ti fui mentre vissi, ed or
non sono,
74 che fui misera anch’io. Non far
querela
75 di questa infelicissima
fanciulla.
76 Per le sventure nostre, e per
l’amore
77 che mi strugge, esclamai; per lo
diletto
78 nome di giovanezza e la perduta
79 speme dei nostri dí, concedi, o
cara,
80 che la tua destra io tocchi. Ed
ella, in atto
81 soave e tristo, la porgeva. Or
mentre
82 di baci la ricopro, e d’affannosa
83 dolcezza palpitando all’anelante
84 seno la stringo, di sudore il
volto
85 ferveva e il petto, nelle fauci
stava
86 la voce, al guardo traballava il
giorno.
87 Quando colei teneramente affissi
88 gli occhi negli occhi miei, già
scordi, o caro,
89 disse, che di beltà son fatta
ignuda?
90 E tu d’amore, o sfortunato,
indarno
91 ti scaldi e fremi. Or finalmente
addio.
92 Nostre misere menti e nostre
salme
93 son disgiunte in eterno. A me non
vivi
94 e mai piú non vivrai: già ruppe
il fato
95 la fe che mi giurasti. Allor
d’angoscia
96 gridar volendo, e spasimando, e
pregne
97 di sconsolato pianto le pupille,
98 dal sonno mi disciolsi. Ella
negli occhi
99 pur mi restava, e nell’incerto
raggio
100 del Sol vederla io mi credeva
ancora.
b) G. Leopardi, Del fingere poetando un sogno (l820)
Se tu
devi poetando fingere un sogno, dove tu o altri veda un defonto amato, massime
poco dopo la sua morte, fa che il sognante si sforzi di mostrargli il dolore
che ha provato per la sua disgrazia. Cosí accade vegliando, che ci tormenta il
desiderio di far conoscere all’oggetto amato il nostro dolore; la disperazione
di non poterlo; e lo spasimo di non averglielo mostrato abbastanza in vita.
Cosí accade sognando, che quell’oggetto ci par vivo bensí, ma come in uno stato
violento; e noi lo consideriamo come sventuratissimo, degno dell’ultima
compassione, e oppresso da una somma sventura, cioè la morte; ma noi non lo
comprendiamo bene allora, perché non sappiamo accordare la sua morte con la sua
presenza. Ma gli parliamo piangendo, con dolore, e la sua vista e il suo
colloquio c’intenerisce, e impietosisce, come di persona che soffra, e non
sappiamo, se non confusamente, che cosa. (3 Dicembre l820) .
(G. Leopardi, Canti, Newton Compton, Roma, l996,
pagg. 93-l03, 287)