Leopardi, La vita solitaria

Leopardi propone un rapporto fra uomo (poeta) e Natura dominato da una fortissima contraddizione: non si tratta di una contrapposizione assoluta; la Natura non è semplicemente la matrigna ostile o la nemica. Sicuramente la Natura condanna l’uomo al dolore, ma al tempo stesso gli offre rifugio, quiete e anche un po’ di felicità.

Il carattere contraddittorio del rapporto fra uomo e Natura è reso in maniera drammaticamente efficace attraverso inserimenti improvvisi del dolore in situazioni di serenità, che, comunque, non si fanno sopraffare e anzi lo sovrastano, per cedergli poi, però, di nuovo il campo.

Il Sole del mattino scopre una Natura piena dolcezza: è una Natura che il poeta addirittura benedice. Ma quel dolce risveglio porta alla luce anche l’odio e il dolore presenti fra gli uomini. Il canto procede quindi con l’alternarsi incalzante di questi due aspetti del legame uomo-Natura.

La Luna, che mostra con il suo raggio “infesto” i briganti e gli assassini che popolano la notte, svela al poeta anche la dolcezza della campagna, suscita in lui il ricordo piacevole e lo spinge al proposito di continuare a godere della Natura.

Per sconfiggere il dolore e la morte Leopardi usa lo strumento del ricordo (fondamentale come quello dell’illusione): è possibile non soltanto cogliere la dolcezza del presente, ma anche far rivivere, sottraendola al passato, la dolcezza dell’amore, della giovinezza, della vita come danza e gioco: la morte, infatti, non è solo l’annichilimento che verrà, ma anche le cose che non sono piú, che sono diventate Nulla. È possibile cosí sconfiggere anche la morte interiore dell’uomo, e sciogliere di nuovo un cuore che sembrava diventato di sasso.

La condizione che rende possibile il ricordo e l’illusione è la solitudine, perché ricordare e  produrre illusioni sono due facoltà individuali della mente. La condanna alla solitudine è il prezzo che l’uomo deve pagare per la sua liberazione (momentanea) dalla paura del Nulla.

 

G. Leopardi, La vita solitaria (l82l)

 

1             La mattutina pioggia, allor che l’ale

2             battendo esulta nella chiusa stanza

3             la gallinella, ed al balcon s’affaccia

4             l’abitator de’ campi, e il Sol che nasce

5             i suoi tremuli rai fra le cadenti

6             stille saetta, alla capanna mia

7             dolcemente picchiando, mi risveglia;

8             e sorgo, e i lievi nugoletti, e il primo

9             degli augelli susurro, e l’aura fresca,

10           e le ridenti piagge benedico:

11           poiché voi, cittadine infauste mura,

12           vidi e conobbi assai, là dove segue

13           odio al dolor compagno; e doloroso

14           io vivo, e tal morrò, deh tosto! Alcuna

15           benché scarsa pietà pur mi dimostra

16           natura in questi lochi, un giorno oh quanto

17           verso me piú cortese! E tu pur volgi

18           dai miseri lo sguardo; e tu, sdegnando

19           le sciagure e gli affanni, alla reina

20           felicità servi, o natura. In cielo,

21           in terra amico agl’infelici alcuno

22           e rifugio non resta altro che il ferro.

               

23           Talor m’assido in solitaria parte,

24           sovra un rialto, al margine d’un lago

25           di taciturne piante incoronato.

26           Ivi, quando il meriggio in ciel si volve,

27           la sua tranquilla imago il Sol dipinge,

28           ed erba o foglia non si crolla al vento,

29           e non onda incresparsi, e non cicala

30           strider, né batter penna augello in ramo,

31           né farfalla ronzar, né voce o moto

32           da presso né da lunge odi né vedi.

33           Tien quelle rive altissima quiete;

34           ond’io quasi me stesso e il mondo obblio

35           sedendo immoto; e già mi par che sciolte

36           giaccian le membra mie, né spirto o senso

37           piú le commova, e lor quiete antica

38           co’ silenzi del loco si confonda.

               

39           Amore amore, assai lungi volasti

40           dal petto mio, che fu sí caldo un giorno,

41           anzi rovente. Con sua fredda mano

42           lo strinse la sciaura, e in ghiaccio è volto

43           nel fior degli anni. Mi sovvien del tempo

44           che mi scendesti in seno. Era quel dolce

45           e irrevocabil tempo, allor che s’apre

46           al guardo giovanil questa infelice

47           scena del mondo, e gli sorride in vista

48           di paradiso. Al garzoncello il core

49           di vergine speranza e di desio

50           balza nel petto; e già s’accinge all’opra

51           di questa vita come a danza o gioco

52           il misero mortal. Ma non sí tosto,

53           amor, di te m’accorsi, e il viver mio

54           fortuna avea già rotto, ed a questi occhi

55           non altro convenia che il pianger sempre.

56           Pur se talvolta per le piagge apriche,

57           su la tacita aurora o quando al sole

58           brillano i tetti e i poggi e le campagne,

59           scontro di vaga donzelletta il viso;

60           o qualor nella placida quiete

61           d’estiva notte, il vagabondo passo

62           di rincontro alle ville soffermando,

63           l’erma terra contemplo, e di fanciulla

64           che all’opre di sua man la notte aggiunge

65           odo sonar nelle romite stanze

66           l’arguto canto; a palpitar si move

67           questo mio cor di sasso: ahi, ma ritorna

68           tosto al ferreo sopor; ch’è fatto estrano

69           ogni moto soave al petto mio.

               

70           O cara Luna, al cui tranquillo raggio

71           danzan le lepri nelle selve; e duolsi

72           alla mattina il cacciator, che trova

73           l’orme intricate e false, e dai covili

74           error vario lo svia; salve, o benigna

75           delle notti reina. Infesto scende

76           il raggio tuo fra macchie e balze o dentro

77           a deserti edifici, in su l’acciaro

78           del pallido ladron ch’a teso orecchio

79           il fragor delle rote e de’ cavalli

80           da lungi osserva o il calpestio de’ piedi

81           su la tacita via; poscia improvviso

82           col suon dell’armi e con la rauca voce

83           e col funereo ceffo il core agghiaccia

84           al passegger, cui semivivo e nudo

85           lascia in breve tra’ sassi. Infesto occorre

86           per le contrade cittadine il bianco

87           tuo lume al drudo vil, che degli alberghi

88           va radendo le mura e la secreta

89           ombra seguendo, e resta, e si spaura

90           delle ardenti lucerne e degli aperti

91           balconi. Infesto alle malvage menti,

92           a me sempre benigno il tuo cospetto

93           sarà per queste piagge, ove non altro

94           che lieti colli e spaziosi campi

95           m’apri alla vista. Ed ancor io soleva,

96           bench’innocente io fossi, il tuo vezzoso

97           raggio accusar negli abitati lochi,

98           quand’ei m’offriva al guardo umano, e quando

99           scopriva umani aspetti al guardo mio.

100         Or sempre loderollo, o ch’io ti miri

101         veleggiar tra le nubi, o che serena

102         dominatrice dell’etereo campo,

103         questa flebil riguardi umana sede.

104         Me spesso rivedrai solingo e muto

105         errar pe’ boschi e per le verdi rive,

106         o seder sovra l’erbe, assai contento

107         se core e lena a sospirar m’avanza.

 

(G. Leopardi, Canti, Newton Compton, Roma, l996, pagg. 98-l03)