Leopardi, Tasso e il Genio familiare

Leopardi appone al titolo di questo dialogo la seguente nota: “Ebbe Torquato Tasso, nel tempo dell’infermità della sua mente, un’opinione simile a quella famosa di Socrate; cioè credette vedere di tratto in tratto uno spirito buono e amico, e avere con esso lui molti e lunghi ragionamenti. Cosí leggiamo nella vita del Tasso descritta dal Manso: il quale si trovò presente a uno di questi o colloqui o soliloqui che noi li vogliamo chiamare”.

Tasso è segregato, mura e sbarre lo separano dal resto del mondo: in questa condizione egli può fare soltanto ricorso al ricordo, alla immaginazione e al sogno. Il ricordo avviva il deserto: quando l’immagine della donna amata gli torna alla mente Tasso sente tutto il suo corpo vibrare, riscopre la forza vitale che anima “il primo uomo”, cioè la natura umana non ancora avvilita dall’esperienza del mondo. Anche qui, però, Leopardi sente il bisogno di sottolineare il carattere illusorio del ricordo: le donne in carne e ossa sono ben altra cosa da come sono pensate o ricordate dagli uomini innamorati. Nonostante questa consapevolezza Tasso muore “dal desiderio di rivederla e di riparlarle”: illusione (o ricordo), consapevolezza, illusione (o desiderio) si ripropongono nel loro tipico alternarsi. Il genio fa a Tasso il dono di un sogno della donna amata e sottolinea il carattere di realtà del sogno: per tutto il giorno, dopo aver sognato, Tasso si sentirà “balzare il cuore dalla tenerezza”.

Il discorso si sposta quindi sul piacere: è impossibile – scrive Leopardi – conoscerlo “per pratica”; esso è soltanto un “concetto”: un ricordo o un’illusione e, al tempo stesso, l’unico e reale “obbietto e intento della vita nostra”.

G. Leopardi, Dialogo di Torquato Tasso e del suo Genio familiare (l824)

[...]

Ebbe Torquato Tasso, nel tempo dell’infermità della sua mente, un’opinione simile a quella famosa di Socrate; cioè credette vedere di tratto in tratto uno spirito buono ed amico, e avere con esso lui molti e lunghi ragionamenti. Cosí leggiamo nella vita del Tasso descritta dal Manso, il quale si trovò presente a uno di questi o colloqui o soliloqui che noi li vogliamo chiamare.

Genio. Come stai Torquato?

Tasso. Ben sai come si può stare in una prigione, e dentro ai guai fino al collo.

Genio. Via, ma dopo cenato non è tempo da dolersene. Fa buon animo, e ridiamone insieme.

Tasso. Ci son poco atto. Ma la tua presenza e le tue parole sempre mi consolano. Siedimi qui accanto.

Genio. Che io segga? La non è già cosa facile a uno spirito. Ma ecco: fa conto ch’io sto seduto.

Tasso. Oh potess’io rivedere la mia Leonora. Ogni volta che ella mi torna alla mente, mi nasce un brivido di gioia, che dalla cima del capo mi si stende fino all’ultima punta de’ piedi; e non resta in me nervo né vena che non sia scossa. Talora, pensando a lei, mi si ravvivano nell’animo certe immagini e certi affetti, tali, che per quel poco tempo, mi pare di essere ancora quello stesso Torquato che fui prima di aver fatto esperienza delle sciagure e degli uomini, e che ora io piango tante volte per morto In vero, io direi che l’uso del mondo, e l’esercizio de’ patimenti, sogliono come profondare e sopire dentro a ciascuno di noi quel primo uomo che egli era: il quale di tratto in tratto si desta per poco spazio, ma tanto piú di rado quanto è il progresso degli anni; sempre piú poi si ritira verso il nostro intimo, e ricade in maggior sonno di prima; finché durando ancora la nostra vita, esso muore. In fine, io mi maraviglio come il pensiero di una donna abbia tanta forza, da rinnovarmi, per cosí dire, l’anima, e farmi dimenticare tante calamità. E se non fosse che io non ho piú speranza di rivederla, crederei non avere ancora perduta la facoltà di essere felice.

Genio. Quale delle due cose stimi che sia piú dolce: vedere la donna amata, o pensarne?

Tasso. Non so. Certo che quando mi era presente ella mi pareva una donna; lontana, mi pareva e mi pare una dea.

Genio. Coteste dee sono cosí benigne, che quando alcuno vi si accosta, in un tratto ripiegano la loro divinità, si spiccano i raggi d’attorno, e se li pongono in tasca, per non abbagliare il mortale che si fa innanzi.

Tasso. Tu dici il vero pur troppo. Ma non ti pare egli cotesto un gran peccato delle donne; che alla prova, elle ci riescano cosí diverse da quelle che noi le immaginavamo?

Genio. Io non so vedere che colpa s’abbiano in questo, d’esser fatte di carne e sangue, piuttosto che di ambrosia e nettare. Qual cosa del mondo ha pure una ombra o una millesima parte della perfezione che voi pensate che abbia a essere nelle donne? E anche mi pare strano, che non facendovi maraviglia che gli uomini sieno uomini, cioè creature poco lodevoli e poco amabili; non sappiate poi comprendere come accade, che le donne in fatti non sieno angeli.

Tasso. Con tutto questo, io mi muoio dal desiderio di rivederla, e di riparlarle.

Genio. Via, questa notte in sogno io te la condurrò davanti; bella come la gioventú, e cortese in modo, che tu prenderai cuore di favellarle molto piú franco e spedito che non ti venne fatto mai per l’addietro: anzi all’ultimo le stringerai la mano; ed ella guardandoti fiso, ti metterà nell’animo una dolcezza tale, che tu ne sarai sopraffatto; e per tutto domani, qualunque volta ti sovverrà di questo sogno, ti sentirai balzare il cuore dalla tenerezza.

Tasso. Gran conforto: un sogno in cambio del vero.

Genio. Che cosa è il vero?

Tasso. Pilato non lo seppe meno di quello che lo so io.

Genio. Bene, io risponderò per te. Sappi che dal vero al sognato, non corre altra differenza, se non che questo può qualche volta essere molto piú bello e piú dolce, che quello non può mai.

Tasso. Dunque tanto vale un diletto sognato, quanto un diletto vero?

Genio. Io credo. Anzi ho notizia di uno che quando la donna che egli ama, se gli rappresenta dinanzi in alcun sogno gentile, esso per tutto il giorno seguente, fugge di ritrovarsi con quella e di rivederla, sapendo che ella non potrebbe reggere al paragone dell’immagine che il sonno gliene ha lasciata impressa, e che il vero, cancellandogli dalla mente il falso, priverebbe lui del diletto straordinario che ne ritrae. Però non sono da condannare gli antichi, molto piú solleciti, accorti e industriosi di voi, circa a ogni sorta di godimento possibile alla natura umana, se ebbero per costume di procurare in vari modi la dolcezza e la giocondità dei sogni; né Pitagora è da riprendere per avere interdetto il mangiare delle fave, creduto contrario alla tranquillità dei medesimi sogni, ed atto a intorbidarli; e sono da scusare i superstiziosi che avanti di coricarsi solevano orare e far libazioni a Mercurio conduttore dei sogni, acciò ne menasse loro di quei lieti; l’immagine del quale tenevano a quest’effetto intagliata in su’ piedi delle lettiere. Cosí, non trovando mai la felicità nel tempo della vigilia, si studiavano di essere felici dormendo: e credo che in parte, e in qualche modo, l’ottenessero; e che da Mercurio fossero esauditi meglio che dagli altri Dei.

Tasso. Per tanto, poiché gli uomini nascono e vivono al solo piacere, o del corpo o dell’animo; se da altra parte il piacere è solamente o massimamente nei sogni, converrà ci determiniamo a vivere per sognare: alla qual cosa, in verità, io non mi posso ridurre.

Genio. Già vi sei ridotto e determinato, poiché tu vivi e che tu consenti di vivere. Che cosa è il piacere?

Tasso. Non ne ho tanta pratica da poterlo conoscere che cosa sia.

Genio. Nessuno lo conosce per pratica, ma solo per ispeculazione: perché il piacere è un subbietto speculativo, e non reale; un desiderio, non un fatto; un sentimento che l’uomo concepisce col pensiero, e non prova; o per dir meglio, un concetto e non un sentimento. Non vi accorgete voi che nel tempo stesso di qualunque vostro diletto, ancorché desiderato infinitamente, e procacciato con fatiche e molestie indicibili; non potendovi contentare il goder che fate in ciascuno di quei momenti, state sempre aspettando un goder maggiore e piú vero, nel quale consista in somma quel tal piacere; e andate quasi riportandovi di continuo agl’istanti futuri di quel medesimo diletto? Il quale finisce sempre innanzi al giungere dell’istante che vi soddisfaccia; e non vi lascia altro bene che la speranza cieca di goder meglio e piú veramente in altra occasione, e il conforto di fingere e narrare a voi medesimi di aver goduto, con raccontarlo anche agli altri, non per sola ambizione, ma per aiutarvi al persuaderlo che vorreste pur fare a voi stessi. Però chiunque consente di vivere, nol fa in sostanza ad altro effetto né con altra utilità che di sognare; cioè credere di avere a godere, o di aver goduto; cose ambedue false e fantastiche.

Tasso. Non possono gli uomini credere mai di godere presentemente?

Genio. Sempre che credessero cotesto, godrebbero in fatti. Ma narrami tu se in alcun istante della tua vita, ti ricordi aver detto con piena sincerità ed opinione: io godo. Ben tutto giorno dicesti e dici sinceramente: io godrò; e parecchie volte, ma con sincerità minore: ho goduto. Di modo che il piacere è sempre o passato o futuro, e non mai presente

Tasso. Che è quanto dire è sempre nulla.

Genio. Cosí pare.

Tasso. Anche nei sogni.

Genio. Propriamente parlando.

Tasso. E tuttavia l’obbietto e l’intento della vita nostra; non pure essenziale ma unico, è il piacere stesso; intendendo per piacere la felicità; che debbe in effetto esser piacere; da qualunque cosa ella abbia a procedere.

Genio. Certissimo.

Tasso. Laonde la nostra vita, mancando sempre del suo fine, è continuamente imperfetta; e quindi il vivere è di sua propria natura uno stato violento.

Genio. Forse.

Tasso. Io non ci veggo forse. Ma dunque perché viviamo noi? voglio dire, perché consentiamo di vivere?

Genio. Che so io di cotesto? Meglio lo saprete voi, che siete uomini.

Tasso. Io per me ti giuro che non lo so.

Genio. Domandane altri de’ piú savi, e forse troverai qualcuno che ti risolva cotesto dubbio.

Tasso. Cosí farò. Ma certo questa vita che io meno, è tutta uno stato violento: perché lasciando anche da parte i dolori, la noia sola mi uccide.

Genio. Che cosa è la noia?

Tasso. Qui l’esperienza non mi manca, da soddisfare alla tua domanda. A me pare che la noia sia della natura dell’aria: la quale riempie tutti gli spazi interposti alle altre cose materiali, e tutti i vani contenuti in ciascuna di loro; e donde un corpo si parte, e altro non gli sottentra, quivi ella succede immediatamente Cosí tutti gl’intervalli della vita umana frapposti ai piaceri e ai dispiaceri, sono occupati dalla noia. E però, come nel mondo materiale, secondo i Peripatetici, non si dà vòto alcuno; cosí nella vita nostra non si dà vòto; se non quando la mente per qualsivoglia causa intermette l’uso del pensiero. Per tutto il resto del tempo, l’animo, considerato anche in se proprio e come disgiunto dal corpo, si trova contenere qualche passione; come quello a cui l’essere vacuo da ogni piacere e dispiacere, importa essere pieno di noia; la quale anco è passione, non altrimenti che il dolore e il diletto.

Genio. E da poi che tutti i vostri diletti sono di materia simile ai ragnateli; tenuissima, radissima e trasparente; perciò come l’aria in questi, cosí la noia penetra in quelli da ogni parte, e li riempie. Veramente per la noia non credo si debba intendere altro che il desiderio puro della felicità; non soddisfatto dal piacere, e non offeso apertamente dal dispiacere. Il qual desiderio, come dicevamo poco innanzi, non è mai soddisfatto; e il piacere propriamente non si trova. Sicché la vita umana, per modo di dire, è composta e intessuta, parte di dolore, parte di noia; dall’una delle quali passioni non ha riposo se non cadendo nell’altra. E questo non è tuo destino particolare, ma comune di tutti gli uomini.

 

(G. Leopardi, Tutte le opere, Sansoni, Firenze, l9885, vol. I, pagg. ll0-ll2)