E. Lévinas
(1905-1997), lituano di origine ebraica, è uno dei piú noti filosofi viventi.
Una delle caratteristiche del suo pensiero è la tendenza continua all’evasione
dalla neutralità, dall’anonimato, da se stessi come “essere generale”. In
questo modo egli reinterpreta l’immagine dell’ebreo errante come figura
ontologica. Nell’“uscir fuori di sé” l’uomo incontra l’Altro. Dalla
inevitabilità dell’incontro con l’altro e dal superamento dell’estraneità
deriva la centralità dell’etica.
In questa
lettura Lévinas osserva che il monoteismo segna un momento di rottura nella
storia del sacro e che nei confronti del precedente politeismo esso è una forma
di negazione ateistica. Il monoteismo è anche una manifestazione d’intelligenza
che lo avvicina alla filosofia.
E. Lévinas, Difficile libertà, trad.
it. di G. Penati, La Scuola, Brescia, 1986, pagg. 68-70
Il monoteismo giudaico non esalta una potenza sacra, un numen che trionfi su altre potenze numinose, ma che partecipi ancora della loro vita clandestina e misteriosa. Il Dio dei giudei non è sopravvivenza degli dèi mitici. Secondo un apologo Abramo, il padre dei credenti, sarebbe stato figlio di un mercante d’idoli. Approfittando dell’assenza di Tereh, li avrebbe tutti spezzati, risparmiando il piú grande di essi per attribuirgli, agli occhi del padre, la responsabilità del massacro. Ma Teher al suo ritorno non può accettare questa versione fantastica: egli sa che nessun idolo al mondo potrebbe distruggere gli altri. Il monoteismo segna una rottura con una certa concezione del sacro; non unifica né gerarchizza gli dèi numinosi e numerosi; li nega. Rispetto al divino ch’essi incarnano, non è altro che ateismo.
Su questo punto il giudaismo si sente estremamente vicino all’Occidente, voglio dire alla filosofia. Non è semplicemente un caso che la via verso la sintesi fra rivelazione giudaica e pensiero greco fosse magistralmente tracciata da Maimonide, cui si richiamano i filosofi giudei e musulmani; che un profondo rispetto per la sapienza greca riempisse già i sapienti del Talmud; che l’educazione per il giudeo si confonda con l’ispirazione e che l’ignorante non possa essere realmente religioso! E sono frequenti curiosi testi talmudici che cercano di presentare la natura della spiritualità d’Israele come costituita dalla sua eccellenza intellettuale: non certo per orgoglio luciferino della ragione, ma perché l’eccellenza intellettuale è interiore, e i “miracoli” ch’essa rende possibili non feriscono la dignità dell’essere responsabile, come invece fa la taumaturgia; ma soprattutto perché non deteriorano le condizioni dell’azione e dello sforzo.
Da ciò deriva in tutta la vita religiosa giudaica l’importanza dell’esercizio dell’intelligenza, certo, applicata in primo luogo al contenuto della rivelazione, alla Torah. Ma la nozione di rivelazione è destinata ad ampliarsi rapidamente, sino a comprendere tutto il sapere essenziale. Un apologo rabbinico rappresenta Dio che insegna agli angeli e a Israele; in questa scuola divina gli angeli (intelletti senza debolezze ma senza malizia) domandano a Israele, posto in prima fila, il senso della parola divina. L’esistenza umana, malgrado l’inferiorità del suo rango ontologico, a causa di questa inferiorità, di ciò ch’essa implica di tormentato, di inquieto e di critico, è il vero luogo in cui la parola divina incontra l’intelletto e perde il resto delle sue virtú che si pretendono mistiche. Ma l’apologo intende anche insegnarci che la verità degli angeli non è di specie diversa dalla verità degli uomini, che gli uomini hanno accesso alla parola divina senza che l’estasi debba strapparli alla loro essenza, alla loro natura umana.
L’affermazione rigorosa dell’indipendenza umana, della sua presenza intelligente a una realtà intelligibile, la distruzione del concetto numinoso del sacro, implicano il rischio di ateismo: è un rischio che bisogna correre, perché solo con esso l’uomo si eleva alla nozione spirituale del trascendente. È grande gloria del Creatore aver costituito un essere che lo afferma dopo averlo contestato e negato nelle illusioni del mito e dell’entusiasmo; è grande gloria di Dio aver creato un essere capace di cercarlo e di capirlo da lontano, partendo dalla separazione, dall’ateismo. Un testo del trattato Taanith (pag. 5) commenta il versetto di Geremia 2,13: “Poiché il mio popolo ha commesso due iniquità: hanno abbandonato me, fonte d’acqua viva, e hanno scavato delle cisterne, cisterne screpolate, che non trattengono l’acqua”. Esso insiste sulla duplice trasgressione che si commette con l’idolatria: ignorare il vero Dio è infatti solo un male a metà; l’ateismo è già meglio della pietà votata ai mitici dèi in cui Simone Weil distingue già i gradi e simboli della vera religione. Il monoteismo oltrepassa e include in sé l’ateismo, ma non è accessibile a chi non ha raggiunto l’età del dubbio, della solitudine e della rivolta.
La difficile via del monoteismo si congiunge con la strada dell’Occidente. Ci si può chiedere infatti se lo spirito occidentale, se la filosofia, non sia in ultima analisi l’affermarsi di un’umanità che accetta il rischio dell’ateismo, che va corso e superato, come prezzo della sua maggiore età.
Novecento filosofico e scientifico, a cura di A. Negri, Marzorati, Milano, 1991,
vol. V, pagg. 258-259