Claude
Lévi-Strauss (n. 1908), famoso antropologo francese, ha proposto una lettura
della vicenda umana che privilegia la stabilità delle “strutture dello spirito
umano”. La sua teoria strutturalista suscitò le polemiche piú accese
soprattutto da parte delle correnti storiciste e progressiste che negli anni
del dopoguerra dominavano la cultura europea. Rifacendosi alla linguistica, ed
in particolare alla semiologia di de Saussure, in questa lettura egli definisce
l’antropologia come “quel campo della semiologia, che la linguistica non ha
ancora rivendicato come proprio”.
C. Lévi-Strauss, Elogio dell’antropologia,
in Razza e storia e altri studi di antropologia, trad. it. di P. Caruso,
Einaudi, Torino, 1967, pag. 56
Che cos’è dunque l’antropologia sociale?
Nessuno, mi sembra, è stato piú vicino a definirla – benché solo per preterizione – di Ferdinand de Saussure quando, presentando la linguistica come una parte di una scienza ancora da nascere, egli riserva a quest’ultima il nome di semiologia, e le attribuisce, come oggetto di studio, la vita dei segni in seno alla vita sociale. Lui stesso, d’altronde, non anticipava forse la nostra adesione, quando, per l’occasione, paragonava il linguaggio “alla scrittura, all’alfabeto dei sordomuti, ai riti simbolici, alle formule di cortesia, ai segnali militari ecc.”? Nessuno contesterà che l’antropologia annoveri, nel proprio campo, almeno certuni di tali sistemi di segni, ai quali si aggiungono molti altri: linguaggio mitico, segni orali e gestuali di cui si compone il rituale, regole di matrimonio, sistemi di parentela, leggi consuetudinarie, talune modalità degli scambi economici.
Intendiamo quindi l’antropologia come l’occupante in buona fede di quel campo della semiologia che la linguistica non ha ancora rivendicato come proprio; e in attesa che, almeno per certi settori di questo campo, non si costituiscano scienze speciali all’interno dell’antropologia.
Novecento filosofico e scientifico, a cura di A. Negri, Marzorati, Milano, 1991,
vol. III, pag. 190