Alla fine del suo Saggio sull’intelletto umano,
Locke torna a parlare dell’innatismo. A coloro che affermano che non tutte le
nostre nozioni derivano dall’esperienza, il filosofo risponde che ciò è vero
nel senso che oltre all’esperienza sensibile vi è da considerare anche
l’attività della ragione.
J. Locke, Saggio sull’intelletto umano,
Appendice, par. 43
43. – Le obiezioni, da me sinora
incontrate in opposizione a quanto in precedenza ho detto, sono soltanto due.
La prima obiezione è questa: non
ogni nostra nozione e conoscenza deriva dalle idee apprese mediante i sensi
esterni, o dalla sensazione che abbiamo delle operazioni del nostro spirito; al
contrario, noi abbiamo certe idee o principi innati, della cui verità siamo certi,
sebbene essi non possano mai essere oggetto di osservazione sensibile: onde noi
non potremmo mai apprendere la loro verità dai nostri sensi, né sulla
testimonianza di essi fondare il nostro assenso. Per es., noi sappiamo che
tutti i numeri hanno la proprietà di essere pari o dispari; ma non dai sensi
possiamo derivare la certezza che questa proprietà appartenga a tutti i numeri,
perché né i sensi né il pensiero sono stati in rapporto con tutti i numeri.
Al che rispondo ch’io non ho mai
detto che la verità di tutte le proposizioni debba esserci fornita dai nostri
sensi, poiché ciò equivarrebbe a non lasciare alcun posto alla ragione, la
quale invece, a mio avviso, può – sulla traccia delle idee ricevute dal senso o
dalla sensazione – pervenire alla conoscenza di molte proposizioni, che i
nostri sensi non potrebbero mai scoprire. Il principio da me stabilito era
invece questo, che noi non abbiamo nello spirito alcuna idea semplice, che non
risulti dalla sensazione delle operazioni (che non sono oggetti della nostra
facoltà di pensare), o non provenga dall’esterno mediante i nostri sensi; e
neanche abbiamo alcuna idea complessa, che non derivi da quelle idee semplici
per il potere, che lo spirito ha, di costruire, allargare, comporre, astrarre,
ecc., ma non di formare idee nuove. E perciò la surricordata proposizione
(ossia, “tutti i numeri sono pari o dispari”) non scuote affatto i fondamenti
da me posti, giacché, a esaminarla, si troverà che tutte le sue idee semplici
(che sono solo tre: “numero”, “pari” e “dispari”) rientrano nei limiti del
senso e della sensazione. Come noi acquistiamo la nozione di numero, io ho già
cercato di mostrarlo piú sopra; e quanto alle nozioni di “pari” e “dispari”,
esse hanno lo stesso fondamento sensibile, “pari” essendo il numero che si può
dividere in due parti uguali, e “dispari” quello che, una volta diviso nelle
parti piú uguali possibili, lascerà sempre il residuo di un’unità da una parte
o dall’altra. Il fatto che una tale nozione o idea di “dispari” uno scolaro può
apprenderla dividendo i suoi noccioli di ciliegia dimostra che la si può ben
derivare dai nostri sensi. A questo si aggiunga qui ciò che ho detto piú sopra,
che cioè noi non abbiamo conoscenza certa di nessuna proposizione universale,
tranne di quelle che seguono necessariamente dalle stesse idee semplici
ottenute in uno dei due modi già ricordati (ossia mediante il senso o la sensazione). Ora, proprio per questa via
noi veniamo a conoscere la verità della proposizione in questione (che, cioè,
“tutti i numeri sono pari o dispari”). Infatti nel campo dei numeri, poiché la
nostra nozione di “unità” è tutt’una con quella di “indivisibile”, mettendo
insieme un’unità con un’altra noi ne otteniamo due, che sono due indivisibili;
cosicché due indivisibili, una volta messi insieme, possono pure esser divisi
in due indivisibili, ossia in due parti uguali, con la conseguenza che l’intero
è un numero pari. Ma se a queste due aggiungiamo un’altra unità, ottenendone
cosí tre, queste tre unità non possono esser divise in parti uguali, perché,
una volta messe da parte una prima ed una seconda unità, che sono uguali, la
terza unità non può essere divisa, dato che la nostra idea di unità equivale a
quella d’indivisibile: ragion per cui, se l’aggiungiamo ad una delle due unità separate,
essa determina un’eccedenza e disuguaglianza, da cui deduciamo che il numero
tre concorda con la nozione che noi abbiamo del dispari, ossia di un numero non
divisibile in due parti uguali. Ora, anche la nostra nozione di qualunque altro
numero consiste unicamente nell’addizione di varie unità e presenta la stessa
progressione, che si usa nell’aggiungere uno ad uno per fare due e ancora uno
per fare tre: e con l’addizione o sottrazione di un’unità indivisibile il
numero fissato è reso ancora divisibile in parti uguali o disuguali, sí da
essere pari o dispari, dato che l’eccedenza nei numeri dispari non potrebbe mai
essere che eccedenza di un’unità indivisibile: la quale, se sottratta, lascia
l’intero divisibile in due parti uguali; e se accresciuta di un’altra unità,
rende pure l’intero altrettanto divisibile in due parti uguali quanto lo è il
due in due unità o indivisibili. Onde mi sembra evidente che la verità di
questa proposizione generale (che, cioè, “tutti i numeri sono pari o dispari”)
viene ad esserci nota non per effetto di una nozione innata che sia nata con
noi, ma mediante la pura considerazione della natura delle idee di unità e di
numero, da noi ricevute con l’osservazione. E poiché noi non abbiamo il potere
di modificare tali idee, non possiamo affatto pensarle altrimenti che in quel
modo in cui vengono prodotte in noi attraverso i nostri sensi o la sensazione;
e pertanto la verità di quella proposizione consegue ed è, mediante la nostra
facoltà di ragionare, chiaramente deducibile dalla stessa nozione o idea, che
noi abbiamo dell’unità e del numero, e dalla certezza che le cose o i numeri
esistenti debbono necessariamente concordare con le idee che sono nel nostro
spirito.
Poiché io domando a chiunque in
qual modo egli ottenga, o fornirebbe a me, la certezza che tutti i numeri sono
pari o dispari. Se costui risponde che la nozione stessa, che lui ed io abbiamo
del numero, ne dà la prova, io son ben d’accordo, perché allora egli concede
che le nozioni di numero, tratte dal senso o dalla sensazione – quelle nozioni
di numero ch’io ho ottenuto appunto in questo modo, e che mi bastano a quello
scopo non meno delle sue, ch’egli ha ottenuto in qualche altro modo (e in quale
altro modo le abbia ottenute io sarei ben felice di conoscere) – sono sufficienti
per mostrare la verità di quella proposizione: sí che reca un esempio a
conferma del fondamento della conoscenza da me posto, ch’è il senso o la
sensazione. Se invece egli sostiene di poter provare la verità di quella
proposizione mediante nozioni non derivate dal senso o dalla sensazione,
attendo che lo faccia.
J. Locke, Saggio
sull’intelligenza umana, Bari, Laterza, 1951, vol. II, pagg. 535-538