Locke, Contro l'innatismo

La polemica di Locke contro l'innatismo si svolge su due piani: da una parte egli confuta, attraverso il ragionamento e gli esempi presi dall'esperienza, la possibilità che esistano “idee innate”; dall'altra denuncia i danni dell'uso pratico dell'innatismo.

 

J. Locke, Saggio sull'intelletto umano, I, cap. I

 

Nulla, si assume, è piú garantito di questo: che ci sono certi princípi, sia speculativi sia pratici (poiché si parla di entrambi) sui quali tutta l'umanità universalmente è d'accordo; perciò, si argomenta, essi devono essere impressioni permanenti che l'anima umana riceve fin dal primo momento della sua esistenza e che porta in se stessa entrando nel mondo, con la stessa necessità e con la stessa realtà con la quale essa porta una qualsiasi delle facoltà che le sono inerenti. Ma, ed è la cosa peggiore, questa argomentazione del consenso universale, che viene impiegata per provare l'esistenza di princípi innati, mi sembra una dimostrazione che non c'è nessun principio al quale tutta l'umanità dia il proprio universale consenso. È evidente che tutti i bambini e gli idioti non hanno la minima apprensione o il minimo pensiero di quei princípi. E la mancanza di ciò è sufficiente a distruggere quel consenso universale che deve necessariamente accompagnare tutte le verità innate.

Se ci sia qualche principio morale di questo genere, sul quale tutti gli uomini siano d'accordo, io lo chiedo a chiunque abbia una pratica anche soltanto modesta della storia dell'umanità e abbia guardato fuori, al di là del camino di casa sua. Dov'è quella verità pratica che viene universalmente riconosciuta, senza dubbio o senza perplessità, come dev'essere nel caso di una verità innata? Pare che sulla giustizia e sul rispetto dei contratti la maggioranza degli uomini mostrino di essere d'accordo. E si pensa che questo principio si estenda fino alle caverne dei ladri e alle associazioni dei peggiori malfattori: anche quelli che sono andati molto in là verso la perdita di qualsiasi aspetto di umanità, tuttavia tengono fede ai patti stipulati l'uno con l'altro e alle regole di giustizia nei rapporti reciproci. Ammetto che i banditi stessi si comportino a questo modo l'uno nei confronti dell'altro; ma fanno ciò senza ricevere queste cose come le leggi innate di natura. Le praticano come regole di convenienza all'interno delle loro comunità, ma è impossibile pensare che accolga la giustizia come un principio pratico chi agisce onestamente verso i suoi compagni di brigantaggio e allo stesso tempo depreda o uccide il primo onest'uomo che incontra. La giustizia e la verità sono i legami comuni della società, e perciò perfino i banditi e i briganti, che hanno spezzato i legami con tutto il mondo esterno, devono tener fede ai patti e alle regole di equità nei loro rapporti; altrimenti non possono stare insieme. Ma chi dirà che quelli che vivono di frode e di rapina hanno princípi innati di verità e di giustizia, princípi che ammettono e ai quali danno il loro assenso? La natura, lo ammetto,  ha messo nell'uomo un desiderio di felicità e un'avversione all'infelicità: questi sono davvero princípi pratici innati, i quali, come i princípi pratici devono fare, effettivamente continuano costantemente a operare e a influenzare tutte le nostre azioni senza smettere mai, possono essere osservati in tutte le persone e in tutte le età, continui e universali; ma queste sono inclinazioni dell'appetito verso il bene, non impressioni della verità sul nostro intelletto. Nasce di qui naturalmente la grande varietà di opinioni riguardanti le regole morali, che possono essere trovate fra gli uomini, secondo le differenti specie di felicità che essi si prospettano o che si propongono di raggiungere; e non potrebbe essere cosí se i princípi pratici fossero innati e fossero impressi nel nostro spirito immediatamente dalla mano di Dio [...] Dio ha unito, con una connessione inseparabile, la virtú e la pubblica felicità, e ha reso la pratica della virtú necessaria alla conservazione della società ed evidentemente benefica a chiunque abbia a che fare con un uomo che la pratica. Perciò non c'è da stupire che ciascuno non solo non riconosca, ma raccomandi ed esalti le regole della morale presso gli altri, perché è sicuro che dalla loro osservanza o di parte di esse trarrà qualche vantaggio per sé. Egli può, guidato dall'interesse, come dalla convinzione, proclamare che quelle regole sono sacre, perché esse sono tali che, se anche una sola volta vengono calpestate e profanate, egli stesso non può piú essere né sicuro né salvo.

Quali che siano le cose che si dicono quando si parla di princípi innati, speculativi o pratici, non c'è nessuna probabilità che sia giusto pensare che certe proposizioni sono innate, quando non si può supporre che le idee, intorno alle quali quelle proposizioni vertono, lo siano: proprio come dire che un uomo ha in tasca cento sterline, e tuttavia negare che egli abbia in quella tasca o soldi, scellini, corone o altre monete, che tutte insieme facciano quella somma. Il fatto che quelle proposizioni siano generalmente accettate e ricevano consenso non prova che le idee espresse in esse siano innate, perché in molti casi, quale che sia il modo in cui le idee sono pervenute, segue necessariamente l'assenso alle parole che esprimono l'accordo o il disaccordo di quelle idee.

Quando gli uomini hanno trovato alcune proposizioni generali, che non potevano essere messe in dubbio, non appena venivano comprese, era, lo riconosco, breve e facile il cammino che conduceva a concludere che esse erano innate. Una volta accettata, questa conclusione liberò il pigro dalle fatiche della ricerca e impedí a chi aveva dubbi concernenti tutto ciò che una qualche volta era stato considerato come innato di condurre avanti la propria ricerca. Ed era un vantaggio non piccolo per quelli che si presentavano come maestri e insegnanti considerare questo come principio di tutti i princípi: che i princípi non debbono essere messi in discussione. Infatti, una volta stabilita questa credenza, che ci sono princípi innati, i suoi seguaci furono posti nella necessità di accettare alcune dottrine come tali; il che voleva dire privarli dell'uso della propria ragione e del proprio giudizio, e porli nella condizione di credere e accettare quelle dottrine sulla base della fiducia, senza ulteriore esame. Messi in questa posizione di cieca credulità, potevano essere piú facilmente governati e diventavano piú utili per una certa specie di uomini, che avevano l'abilità e il compito di dettar loro i princípi e di guidarli. E non è piccolo il potere che dà a un uomo su di un altro avere l'autorità di essere il dittatore di princípi e l'insegnante di verità che non si mettono in dubbio, e di fare inghiottire a un uomo come un principio innato tutto ciò che può servire al proposito di chi lo insegna. Invece, se avessero esaminato i modi in cui gli uomini sono pervenuti alla conoscenza di molte verità universali, avrebbero trovato che esse si formano nello spirito degli uomini a partire dall'essere delle cose stesse, quando vengono debitamente considerate e che erano scoperte in base all'applicazione delle facoltà adattate dalla natura a ricevere e a giudicare quelle cose, se impiegare nei debiti modi intorno a esse.

 

(Grande Antologia Filosofica, Marzorati, Milano, 1968, vol. XIII, pagg. 632-634)