Locke, Dallo stato di guerra alla giustizia civile

Lo stato di natura è regolato dalle leggi della ragione, e per questo non è uno stato di guerra. Esistono però situazioni in cui la guerra è possibile e giusta: quando alcuni, rinnegando la ragione, cercano di imporsi agli altri con la forza.

Da questa situazione nasce la necessità di “un giudice comune fornito di autorità”, affinché sia ottenuta giustizia evitando la guerra fra le parti.

 

J. Locke, Secondo trattato sul governo, parr. 16, 17, 19-21

 

Lo stato di guerra è uno stato di ostilità e di distruzione. Perciò chi dichiara con la parola o con l'azione un progetto, non passionale e precipitato, ma calmo e determinato, sulla vita di un altro uomo, si pone in uno stato di guerra nei confronti di colui contro il quale ha dichiarato un'intenzione di questo genere, e cosí ha esposto la propria vita al potere di un altro, perché essa può essere eliminata dalla persona con la quale è entrata in ostilità o da chiunque altro si sia unito con lui nella sua difesa e ne abbia sposato la causa: infatti è ragionevole e giusto che io abbia il diritto di distruggere ciò che mi minaccia di distruzione. In base alla legge fondamentale di natura gli uomini debbono essere preservati nella misura massima possibile, ma, quando non tutti possono essere preservati, deve essere preferita la salvezza di chi è innocente; e un uomo può distruggere un altro uomo che gli fa guerra e che ha manifestato ostilità verso la sua stessa esistenza, per la stessa ragione per cui può uccidere un lupo o un leone. Infatti uomini di questo genere non sono sotto i legami della comune legge della ragione, non hanno altra regola che quella della forza e della violenza, e perciò possono essere trattate come bestie feroci, creature pericolose e nocive che sicuramente distruggono chiunque capita sotto il loro potere. [...]

La mancanza di un giudice comune fornito di autorità pone tutti gli uomini in stato di natura; la forza esercitata senza diritto sulla persona di un uomo determina uno stato di guerra, sia dove c'è, sia dove non c'è un giudice comune.

Ma quando la forza effettiva vien meno, lo stato di guerra cessa tra coloro che sono in società, e sono sottomessi nella stessa misura, da entrambi i lati, alla giusta determinazione della legge. Infatti in questo caso è a portata di mano il rimedio di un appello per il torto passato e per prevenire il danno futuro. Ma dove non è possibile un appello di questo genere, come nello stato di natura, per la mancanza di leggi positive e di giudici forniti di autorità ai quali appellarsi, lo stato di guerra, una volta che è cominciato, continua, e la parte innocente ha il diritto di distruggere l'altro ogni volta che può, fino a quando l'aggressore offre la pace e desidera la riconciliazione in termini tali, che può riparare ogni danno che abbia già inflitto, e dare garanzie all'innocente per il futuro.

Evitare questo stato di guerra, nel quale non è possibile appellarsi se non al cielo, e nel quale anche la piú piccola differenza può determinare l'esito della controversia, poiché non c'è nessuna autorità che decida tra i contendenti, questa è l'unica grande ragione per la quale gli uomini si mettono in società e abbandonano lo stato di natura. Perché, dove c'è un'autorità, un potere sulla terra al quale sia possibile far ricorso per avere aiuto, viene esclusa la continuazione dello stato di guerra, e la controversia è decisa da quel potere.

 

(Grande Antologia Filosofica, Marzorati, Milano, 1968, vol. XIII, pagg. 611, 614)