Locke, L’Habeas corpus

Locke collega l’inaccettabilità della schiavitú, principio fondato sulla natura, con la necessità della proprietà privata, a cominciare dalla proprietà del proprio corpo. Inoltre ogni uomo ha il diritto alla proprietà della terra e del lavoro. “Ogni uomo può possedere quanto è in grado di usare”.

J. Locke, Secondo trattato sul governo, parr. 27, 32, 36

 

Sebbene la terra e tutte le creature inferiori siano comuni a tutti gli uomini, tuttavia ogni uomo ha una proprietà sulla propria persona: su questa nessuno ha nessun diritto se non egli stesso. Il lavoro del suo copro e l’opera delle sue mani, possiamo dire, sono propriamente suoi. A tutto ciò che egli ha rimosso dallo stato in cui la natura lo ha messo e lo ha lasciato, egli ha mescolato il proprio lavoro, ha aggiunto qualcosa che è suo proprio, e perciò ne ha fatto una sua proprietà. Poiché lo ha rimosso dallo stato comune nel quale la natura lo ha posto, con il suo lavoro egli gli ha aggiunto qualcosa, che esclude il diritto comune degli altri uomini. E poiché questo lavoro è proprietà incontrovertibile di chi lo ha eseguito, nessuno, se non lui, può avere un diritto a ciò che è ormai legato a questo lavoro, almeno dove siano lasciate in comune per gli altri cose in quantità sufficiente e sufficientemente buone.

Ma ora il contenuto piú importante della proprietà è la terra stessa, e non i suoi frutti e gli animali che vivono su di essa: infatti è la terra che comprende in sé e porta con sé tutto il resto. Penso che sia chiaro che anche la proprietà della terra si acquista come nel caso precedente. Quanta è la terra che l’uomo coltiva, semina, migliora, cura e di cui può usare il prodotto, altrettanta è la sua proprietà: è come se con il suo lavoro egli la recingesse, staccandola dal dominio comune.

La misura della proprietà è stata ben stabilita dalla natura sulla base dell’estensione del lavoro umano e di ciò che può tornare utile alla vita. Infatti nessuno con il proprio lavoro può sottomettere tutto o appropriarsi di tutto, né con l’uso può consumarne piú che una piccola parte. Perciò a questo modo era impossibile per qualsiasi uomo ostacolare il diritto di un altro o acquistare per se stesso una proprietà tale che recasse pregiudizio al suo vicino, il quale avrebbe ancora avuto spazio per procurarsi una proprietà cosí buona e cosí vasta, dopo che l’altro si era preso la propria, come prima che questo ultimo si fosse costituito il suo possesso. Questa misura richiudeva la proprietà di ciascun uomo entro limiti molto ristretti, e tali che ciascuno poteva costituirsi la sua proprietà senza recare danno a nessun altro, nelle prime età del mondo, quando sugli uomini incombeva piú il pericolo di perdersi, allontanandosi dai loro compagni nella vasta terra selvaggia che allora esisteva, che quello di trovarsi allo stretto per mancanza di terra da coltivare. E la stessa misura può essere ammessa ancora oggi, senza pregiudizio di nessuno, per pieno che sembri il mondo...

Questo oso nettamente affermare, che la stessa regola della proprietà, cioè che ogni uomo può possedere quanto è in grado di usare, avrebbe ancora valore nel mondo, senza limitare nessuno, perché c’è nel mondo terra sufficiente per il doppio degli abitanti effettivi, se l’invenzione della moneta, e il tacito consenso degli uomini di dare a essa valore, non avessero prodotto, sulla base del consenso, l’esistenza di possedimenti piú grandi e il diritto a essi.

Grande Antologia Filosofica, Marzorati, Milano, 1968, vol. XIII, pagg. 614-616