Locke, La ragione determina ciò che compete alla fede

Molti sono i significati che può avere la parola “ragione”: Locke, che intende dare ad essa il significato piú ampio possibile, la indica come la facoltà che distingue gli uomini dagli animali. A questo punto dell'analisi del processo conoscitivo Locke è in grado di indicare con chiarezza le diverse funzioni della ragione, di valorizzarne le enormi potenzialità e di metterne in evidenza i limiti: alcuni “oggetti” risultano inaccessibili alla ragione perché sono superiori o contrari ad essa. Quanto è superiore alla ragione - ma non ciò che le è contrario - può essere oggetto della fede.

 

a) La ragione, le sue facoltà e il suo ambito di azione (J. Locke, Saggio sull'intelletto umano, IV, cap. XVII, 1-3, 9-13, 23-24)

 

La parola ragione ha in inglese significati diversi: talvolta essa è intesa nel senso di princípi veri e chiari, talvolta nel senso di deduzioni chiare e corrette da quei princípi, talvolta nel senso di causa, e in modo particolare di causa finale. Ma io la considererò qui in un significato diverso da tutti questi, e cioè nel significato in cui quella parola indica una facoltà nell'uomo, la facoltà per cui si suppone che l'uomo si distingua dalle bestie, e in cui è evidente che egli le sorpassa di gran lunga. Che bisogno c'è della ragione? Moltissimo, sia per l'ampliamento della nostra conoscenza, sia per regolare il nostro assenso. Essa infatti ha un compito sia nella conoscenza sia nell'opinione, è necessaria a tutte le altre nostre facoltà intellettuali, e le assiste, anzi contiene due di esse, cioè la sagacia e l'illazione. Con una trova le idee intermedie [fra le premesse e le conclusioni di un ragionamento] con l'altra le ordina in modo da scoprire quale connessione c'è in ciascun anello della catena, dalla quale gli estremi sono tenuti insieme; cosí in certo modo pone sotto gli occhi la verità cercata, ed è questo che chiamiamo illazione o inferenza, e che consiste in nient'altro che nella percezione della connessione che c'è tra le idee, in ciascun passo della deduzione. Con ciò lo spirito giunge a vedere o l'accordo e il disaccordo certo di due idee qualsiasi, come nella dimostrazione, nel qual caso arriva alla conoscenza, o la loro connessione probabile, sulla base della quale dà o rifiuta il proprio assenso, come nell'opinione. Perciò nella ragione possiamo considerare questi quattro gradi; I) il primo e il piú alto consiste nello scoprire e trovare le verità; II) il secondo nel disporle in modo regolare e metodico, nel metterle in un ordine chiaro e opportuno, nel far sí che la loro connessione e forza sia chiaramente e facilmente percepita; III) il terzo è la percezione di quella connessione; IV) il quarto il trarre una giusta conclusione. La ragione, sebbene penetri nelle profondità del mare e della terra, e levi i nostri pensieri all'altezza delle stelle, ci conduca nel vasto spazio e nelle grandi estensioni di questa possente costruzione, tuttavia si arresta molto prima dei confini dell'estensione reale perfino dell'essere corporeo. [...] 1) Essa ci manca completamente dove ci mancano le nostre idee, perché essa non può estendersi, né si estende al di là di dove giungono le idee. 2) La nostra ragione è spesso confusa e incapace a causa dell'oscurità, confusione o imperfezione delle idee intorno alle quali è impiegata; in questo caso noi siamo involti in difficoltà e contraddizioni. 3) La nostra ragione è spesso bloccata perché non percepisce le idee che potrebbero servire a mostrare l'accordo o disaccordo certo o probabile tra due altre idee qualsiasi; e in questo campo le facoltà di alcuni superano di gran lunga quelle di altri. 4) Lo spirito, procedendo sulla base di falsi princípi, si trova spesso impegnato in assurdità e difficoltà, condotto in strette e contraddizioni, senza sapere come liberarsene. 5) Come idee oscure e imperfette spesso imbrogliano la nostra ragione, cosí, per lo stesso motivo, parole dubbie e segni incerti usati nei discorsi e nei ragionamenti, spesso, quando non vengono attentamente presi in considerazione, mettono in imbarazzo la ragione degli uomini e li conducono a situazioni senza uscita.

Possiamo fare qualche congettura sulla distinzione delle cose in quelle che sono concordi con la ragione, in quelle che sono sopra la ragione e in quelle che sono contrarie alla ragione. a) Secondo ragione sono le proposizioni la cui verità possiamo scoprire esaminando e seguendo le idee che abbiamo dalla sensazione e dalla riflessione, e che troviamo vere o probabili sulla base della deduzione naturale. b) Sopra la ragione sono le proposizioni la cui verità o probabilità non possiamo derivare mediante la ragione da quei princípi. c) Contrarie alla ragione sono le proposizioni che sono incompatibili o inconciliabili con le nostre idee chiare e distinte.

C'è un altro uso della parola ragione, uso in cui essa è opposta a fede. Questo è un modo di parlare molto improprio, tuttavia l'uso comune lo ha autorizzato, e sarebbe folle cercare di opporsi a esso o sperare di porvi rimedio. Soltanto io penso che non sia inutile rendersi conto che, per quanto la fede sia opposta alla ragione, la fede non è nient'altro che un saldo assenso dello spirito; ora se esso è regolato, come è nostro dovere regolarlo, non può essere concesso a una cosa se non sulla base di una buona ragione, e questo non può essere opposto alla ragione.

 

b) Ragione e fede (J. Locke, Saggio sull'intelletto umano, IV, cap. XVIII, 2-5, 7, 9) -189)

 

Prendo qui la ragione, in quanto contraddistinta, rispetto alla fede, come la scoperta della certezza o della probabilità delle proposizioni o delle verità, alle quali lo spirito arriva mediante la deduzione, operata a partire dalle idee che ha ottenuto con l'uso delle proprie facoltà naturali, cioè mediante la sensazione o riflessione. La fede, d'altro canto, è l'assenso a una proposizione che non sia stata costruita a questo modo, sulla base delle deduzioni di ragione, ma accettata, sulla base del credito di chi la propone, come proveniente da Dio, in qualche modo straordinario di comunicazione. Questo modo di scoprire la verità agli uomini si chiama rivelazione. Allora sostengo: I. Nessuno ispirato da Dio può sulla base di una rivelazione, comunicare ad altri un'idea semplice nuova, che essi prima non avessero ricevuto dalla sensazione o dalla riflessione. II. Mediante la rivelazione possono essere scoperte e condotte a noi le stesse verità che possono essere scoperte mediante la ragione e mediante le idee che possiamo avere naturalmente. Nessuna proposizione può essere ricevuta come rivelazione divina, oppure ottenere l'assenso dovuto a tutte le proposizioni di rivelazione divina, se è contraddittoria alla nostra conoscenza chiara e intuitiva. III. Ci sono molte cose delle quali abbiamo nozioni molto imperfette, o non ne abbiamo affatto; ci sono altre cose, della cui esistenza passata, presente o futura non possiamo avere affatto conoscenza sulla base dell'uso naturale delle nostre facoltà. Queste cose, essendo al di là della possibilità di scoperta da parte delle nostre facoltà naturali, ed essendo sopra la ragione, sono, quando vengono rivelate, la materia propria di fede. Una qualsiasi proposizione rivelata, nella quale il nostro spirito non possa giudicare la verità mediante le proprie facoltà e nozioni naturali, è soltanto materia di fede, ed è sopra la ragione. In secondo luogo, tutte le proposizioni di cui lo spirito, con l'uso delle proprie facoltà naturali, può arrivare a determinare e a giudicare a partire dalle idee naturalmente acquisite, sono materia di ragione. Tuttavia c'è ancora una differenza, ed è questa. Ci sono proposizioni che riguardano ciò che ha soltanto un'evidenza incerta; della loro verità si è persuasi sulla base di fondamenti probabili; esse ammettono ancora una possibilità di verità di ciò che è contrario, senza far violenza alla evidenza certa della conoscenza, e senza capovolgere i princípi di tutta la ragione; in queste proposizioni probabili, sostengo, una rivelazione evidente deve determinare il nostro assenso, anche andando contro la probabilità.

 

(Grande Antologia Filosofica, Marzorati, Milano, 1968, vol. XIII, pagg. 658-661)