Il carattere convenzionale del
linguaggio non porta Locke a considerare - come aveva fatto Hobbes - le parole,
una volta “generate” dalle sensazioni, dotate di una vita propria e autonoma:
Locke si preoccupa di non perdere mai di vista il legame tra le parole e le
cose, perché la scienza deve mirare alla conoscenza delle cose.
J. Locke, Saggio
sull'intelletto umano, III, capp. II e IX
Dio, avendo progettato l'uomo
come una creatura socievole, lo creò non soltanto con un'inclinazione e con la
necessità di avere rapporti di compagnia con quelli della sua specie, ma lo
forní anche di linguaggio, che doveva essere il maggiore strumento e il comune
legame della società. L'uso delle parole è quello di essere segni sensibili di
idee, e le idee in luogo delle quali le parole stanno sono il loro significato
proprio e immediato. L'uso che gli uomini fanno di questi segni è o quello di
registrare i loro pensieri, per assistere la memoria, o, in un certo modo,
quello di portar fuori le loro idee e stenderle di fronte alla vista degli
altri: perciò le parole, nel loro significato primario o immediato, stanno per
nient'altro se non per le idee che sono nello spirito di colui che le usa,
per quanto imperfettamente e con poca cura quelle idee siano ricavate dalle
cose che si suppone che esse rappresentino. Tuttavia chi usa le parole dà a
esse, nei suoi pensieri, un riferimento segreto a due altre cose. In primo
luogo, suppone che le sue parole siano segni delle idee dello spirito anche
degli altri uomini, con i quali comunica, perché, altrimenti, parlerebbe
invano e non potrebbe essere capito, se i suoni che egli applica a un'idea
fossero tali, che chi li ascolta li applicasse a un'altra, perché in realtà chi
parla e chi ascolta userebbero due linguaggi diversi. In secondo luogo, poiché
gli uomini non vorrebbero che si pensasse che essi parlano semplicemente della
loro immaginazione, ma pretendono di parlare delle cose come effettivamente
sono, spesso suppongono che le parole stiano anche per la realtà delle cose.
Le parole, come è stato detto, in base a un costume lungo e familiare, riescono
a suscitare negli uomini certe idee in modo cosí costante e pronto, che gli
uomini sono indotti a supporre che ci sia una connessione naturale tra quelle
parole e quelle idee. Ma che esse significhino soltanto idee peculiari degli
uomini, e ciò per un'imposizione assolutamente arbitraria, è evidente in
quanto spesso non riescono a eccitare negli altri, che pure usano lo stesso
linguaggio, le stesse idee di cui noi assumiamo che esse siano segni. Di gran
lunga la maggior parte delle parole che costituiscono tutti i linguaggi sono
termini generali; e ciò non è stato effetto di negligenza o di caso, ma di
ragione e necessità. In primo luogo è impossibile che ogni cosa particolare
abbia un nome particolarmente distinto. In secondo luogo, se anche fosse
possibile, sarebbe tuttavia inutile, perché non servirebbe allo scopo
principale del linguaggio. [...] Questo non può essere raggiunto con nomi
applicati alle cose particolari: di queste io solo ho le idee nel mio spirito,
e perciò i loro nomi non possono essere significativi o intelligibili per un
altro, che non ha incontrato tutte quelle particolarissime cose che sono cadute
sotto la mia informazione. In terzo luogo, anche ammesso che ciò possa essere
fatto (e io penso che non possa), tuttavia un nome distinto per ogni cosa
particolare non sarebbe di grande utilità per il progresso della conoscenza.
Questa infatti, sebbene fondata sulle cose particolari, si estende attraverso
visioni generali, alle quali le cose particolari sono propriamente utili se
ridotte sotto le specie, sotto nomi generali. Le parole diventano generali in
quanto sono fatte segni di idee generali; e le idee diventano generali
attraverso la loro separazione dalle circostanze di tempo e di spazio e da ogni
altra idea che possa legarle in maniera determinata a questa o a quella
esistenza particolare. Con questo modo di astrazione esse diventano capaci di
rappresentare piú di un individuo; e ciascuno di quegli individui, avendo in sé
la conformità a quell'idea astratta, è, come lo chiamiamo, di quella specie.
Non vorrei che si pensasse che io dimentico, tanto meno che nego, che la
natura, nella produzione delle cose, ne fa parecchie simili tra loro: non c'è
nulla di piú ovvio, specialmente nelle razze degli animali e in tutte le cose
che si propagano per mezzo di un seme. Ma tuttavia penso che possiamo dire che l'assortire
le cose sotto nomi è opera dell'intelletto, il quale trae l'occasione dalla somiglianza
che osserva tra le cose, per costruire idee generali astratte, e fissarle
nello spirito, con i nomi che assegna ad esse, come modelli o forme (perché, in
questo senso, la parola forma ha un significato molto proprio); e le
cose particolari esistenti quando si trova che concordano con quella forma o
modello, vengono a essere di quella specie, ricevono quella denominazione, o
sono poste in quella classe.
Nella prima parte di questo
discorso abbiamo spesso occasionalmente menzionato un doppio uso delle parole:
1) per registrare i nostri propri pensieri; 2) per comunicare i nostri pensieri
agli altri.
Per quel che riguarda il primo di
questi usi, cioè quello di registrare i nostri pensieri per venire in aiuto
alla nostra memoria - un uso delle parole con il quale, per cosí dire,
parliamo a noi stessi -, qualsiasi parola serve allo scopo. Infatti poiché i
suoni sono segni volontari e indifferenti di idee qualsiasi, un uomo può usare
le parole che preferisce per significare a se stesso le proprie idee. E non ci
sarà in quelle parole nessuna imperfezione, se usa costantemente il medesimo
segno per la medesima idea, perché non può fare a meno di intendere egli stesso
il significato che dà alle proprie parole: ed è proprio in questo che consiste
la perfezione e l'uso corretto del linguaggio.
In secondo luogo, per quel che
riguarda la comunicazione mediante parole, questa ha un doppio uso: 1) civile;
2) filosofico.
1) Per uso civile intendo
una comunicazione di pensieri e idee mediante parole, che possa servire a
portare avanti la conversazione comune e il commercio, intorno agli affari
ordinari e ai beni della vita civile nelle società nelle quali gli uomini si
legano gli uni agli altri.
2) Per uso filosofico delle
parole intendo un uso delle parole tale che possa servire a trasmettere le
nozioni precise delle cose e a esprimere in proposizioni generali verità certe
e indubitabili, sulle quali lo spirito si può fermare e delle quali può essere
soddisfatto nella ricerca della vera conoscenza. Questi due usi sono molto
distinti, e nell'uno serve molto minore esattezza che nell'altro.
Il fine principale del linguaggio
della comunicazione è quello di essere inteso, e le parole non servono bene a
questo fine, né nel discorso civile né nel discorso filosofico, quando una
parola non suscita nell'ascoltatore la stessa idea in luogo della quale essa
sta nello spirito di chi parla. Ora, poiché le parole non hanno una connessione
naturale con le nostre idee, ma ricevono significato dall'imposizione
arbitraria degli uomini, il carattere dubbio e l'incertezza del loro
significato - che è l'imperfezione della quale qui stiamo parlando - hanno la
propria causa piú nelle idee in luogo delle quali quelle parole stanno che in
una qualsiasi incapacità che ci sia in un suono piú che in un altro a
significare un'idea; infatti, da questo punto di vista, le parole sono tutte
egualmente perfette.
(Grande Antologia Filosofica,
Marzorati, Milano, 1968, vol. XIII, pagg. 643-644, 646-647)