Locke, Magistrati e tolleranza

Il magistrato deve essere tollerante per due motivi, il primo perché non spetta a lui stabilire quale sia la vera Chiesa di Cristo, il secondo perché le conversioni ottenute attraverso la costrizione non valgono nulla.

 

J. Locke, Lettera sulla tolleranza

 

Chiamo Chiese le società religiose, che il magistrato deve tollerare, perché il popolo, cosí raccolto in società, non fa nulla di diverso da ciò che è concesso e lecito ai singoli uomini presi separatamente, cioè si occupa della salvezza dell’anima; e in questo non c’è nessuna differenza tra la Chiesa regia e le altre Chiese diverse da essa. Ma, poiché in ogni Chiesa bisogna considerare soprattutto due cose, cioè il culto esterno o rito e i dogmi, bisogna trattare separatamente gli uni e degli altri, perché risulti piú chiaramente il fondamento universale della tolleranza.

I. Il magistrato non può sancire con la legge civile alcuni riti ecclesiastici o imporre cerimonie nel culto divino, né nella propria, né, ancor meno, nella Chiesa degli altri, non solo perché le Chiese sono società libere, ma perché tutto ciò che viene offerto a Dio nel culto divino, deve avere come fondamento questo solo criterio, che coloro che lo praticano ritengono che sia accetto alla divinità. Ammetto che le cose indifferenti, e forse soltanto quelle, sono sottoposte al potere legislativo. Ma 1) di qui tuttavia non segue che sia lecito al magistrato sancire su qualunque cosa tutto ciò che gli sembri, perché l’utilità pubblica è il limite e la misura della legislazione: se qualcosa non è di utilità allo Stato, per quanto si tratti di una cosa differente, non può essere sancito con una legge. 2) Le cose che, per quanto indifferenti per propria natura, vengono trasferite nella Chiesa e nel culto divino, sono poste fuori dalla giurisdizione del magistrato, perché in quell’uso non hanno nessun rapporto con le cose civili... 3) Le cose che per propria natura sono indifferenti non possono diventare parte del culto divino per intervento dell’autorità e dell’arbitrio umano, e proprio per questa ragione, cioè perché sono indifferenti... Nel culto divino le cose indifferenti non sono lecite per nessun’altra ragione, se non perché sono state istituite da Dio, il quale con un mandato certo, ha attribuito a esse una dignità tale, che diventano parte del culto, e che la maestà della divinità suprema si degnerà di approvarle e di accettarle, anche se saranno offerte da piccoli uomini e da peccatori.

II. Il magistrato non può proibire i riti sacri di nessuna Chiesa e il culto in essa praticato, che si tengono nelle riunioni religiose, perché in tal modo eliminerebbe la Chiesa stessa, il cui fine è di adorare liberamente Dio nel modo che preferisce. Si potrebbe obiettare: se volessero immolare un fanciullo, se (ciò che un tempo fu falsamente imputato ai cristiani), volessero praticare mescolanze carnali, o altre cose di questo genere, dovrebbero esse essere tollerate dal magistrato, perché avvengono in una riunione ecclesiastica? Rispondo che queste cose non sono lecite neppure a casa propria né nella vita civile, e pertanto non lo sono neppure nelle riunioni religiose o nella pratica del culto.

Si dirà: l’idolatria è un peccato, e pertanto non deve essere tollerata. Rispondo: se si dicesse: l’idolatria è un peccato, e pertanto deve essere scrupolosamente evitata, si farebbe un ragionamento giustissimo, ma, quando si dice che, se è un peccato, perciò deve essere punito dal magistrato, non si fa piú un ragionamento altrettanto giusto, perché non è compito del magistrato indirizzare le leggi o alzare la spada contro tutte le cose che crede costituiscano un peccato presso la divinità. L’avarizia, non aiutare i poveri, l’ozio e molte altre cose di questo genere sono, per consenso di tutti, peccati; eppure chi mai ha pensato che debbano essere puniti dal magistrato? Poiché non costituiscono un danno per la proprietà altrui, poiché non turbano la pace pubblica, proprio nei luoghi nei quali essi vengono riconosciuti come peccati, non vengono puniti mediante le leggi. Ovunque le leggi tacciono sulle menzogne, perfino sugli spergiuri, eccetto certi particolari casi, nei quali tuttavia non si tiene conto della provocazione della divinità o della turpitudine di ciò che viene compiuto, ma del torto che viene fatto o allo Stato o al vicino.

Fin qui abbiamo parlato del culto esterno, ma è tempo ora che ci occupiamo della fede. I dogmi ecclesiastici, sono alcuni pratici, altri speculativi, e, sebbene entrambi consistano nella conoscenza della verità, tuttavia questi sono racchiusi entro la sfera dell’opinione e dell’intelletto, quelli che in qualche modo riguardano la volontà e i costumi. Per quel che riguarda pertanto i dogmi speculativi e i cosiddetti articoli di fede, i quali non esigono nient’altro, se non soltanto di essere creduti, la legge civile non può introdurli in nessun modo in una Chiesa qualsiasi. Inoltre il magistrato non deve proibire che opinioni speculative qualsiasi vengano credute o insegnate in una Chiesa qualsiasi, perché esse non hanno nessun rapporto con i diritti civili dei sudditi.

La rettitudine dei costumi, nella quale consiste la parte certo non piú piccola della religione e della pietà sincera, riguarda anche la vita civile, e coinvolge contemporaneamente la salvezza dell’anima e dello Stato; pertanto le azioni morali appartengono a entrambi i fini, quello esterno e quello interno, e sono sottoposte a entrambe le autorità, a quella del moderatore civile e a quella del moderatore privato, cioè del magistrato e della coscienza.

Ogni mortale ha un’anima immortale, capace di beatitudine o di infelicità eterna, la cui salvezza dipende soltanto da questo, che l’uomo abbia fatto e creduto in questa vita le cose che è necessario che siano fatte e credute per riconciliarsi il favore della divinità, e che sono prescritte da Dio. Di qui consegue 1) che l’uomo è obbligato, prima di tutto, a osservare queste cose, e che deve porre tutta la cura, attenzione e diligenza soprattutto nel cercare e nel fare queste cose... 2) Che, poiché un uomo, praticando un culto erroneo, non viola mai il diritto di altri uomini, dal momento che non reca torto a nessun altro, quando non condivide il suo modo di pensare sulle cose divine, anche se si tratta di un modo di pensare corretto, né, cosí, può fraudolentemente danneggiare la prosperità degli altri, soltanto ai singoli appartiene la cura della propria salvezza.

Grande Antologia Filosofica, Marzorati, Milano, 1968, vol. XIII, pagg. 606-609