Il concetto di infinito è stato accolto con
difficoltà dalla filosofia e dalla scienza (si pensi che Copernico, pur avendo
rivoluzionato il sistema dell'Universo, aveva continuato ad accettarne la
finitezza), anche perché una volta considerata razionalmente possibile
l'esistenza dell'infinito, è difficile collegarne l'idea all'esperienza: di
solito per infinito - anche secondo la struttura della parola (non-finito) - si
intende ciò che va al di là dei limiti; e noi possiamo avere esperienza
soltanto dei limiti. Locke considera l'idea di infinito all'interno di un
ambito matematico quantitativo: quindi, sulla base dell'esperienza, può
definire l'infinito attraverso un'“idea” positiva: “qualcosa di cui non
possiamo giungere alla fine”.
J. Locke, Saggio sull'intelletto umano,
Appendice, par. 44
La seconda obiezione vien da coloro che
sostengono di possedere un'idea positiva dell'infinito, che non può ottenersi
dai nostri sensi: onde noi avremmo idee non derivate affatto dai nostri sensi.
Per rispondere a questa obiezione è
necessario considerare a che cosa propriamente e immediatamente appartengono le
nozioni di finito e d'infinito. Si converrà, credo, da tutti che ciò sia
unicamente la quantità: poiché, comunque noi consideriamo - finiti o infiniti -
lo spazio, la durata, il potere, ecc., noi li riferiamo sempre alla nozione di
estensione o di gradi, sí ch'essi rientrano nel concetto di estensione o di
numero: e perciò finito o infinito hanno a che fare, nel significato proprio della
parola, solo con la quantità, continua o discreta che sia, come si dice del
numero e dell'estensione. Questo concedono e suppongono, nel loro modo di
argomentare, anche coloro che sostengono l'idea positiva dell'infinito.
Infatti, se non m'inganno, essi cosí dimostrano la loro idea positiva
dell'infinito: finito è ciò che ha un fine; la fine è negazione di ulteriore
prolungamento o estensione; l'infinito è la negazione di quella negazione: ergo,
l'idea dell'infinito è positiva. Io mi limito ora a notare che in questo modo
essi stessi giudicano che l'infinito non ha niente che fare se non con
l'estensione, sia che sotto di essa comprendano la durata o il potere o
qualunque altra cosa, che sia sub ratione quanti [“calcolabile in
termini quantitativi”].
In secondo luogo, pertanto, bisogna
considerare se la fine di una cosa sia alcunché di positivo o di negativo, a
cominciare dal corpo, che è la cosa piú propriamente capace di estensione. Qui,
la nozione che io ho della fine, supponiamo, di un globo (che abbia il diametro
di un piede o sia grande quanto il mondo, è lo stesso), è l'extremitas ipsius
corporis [“l'estremità del corpo stesso”], ossia, mi pare, la superficie
del globo: poiché, se voi oltrepassate la superficie, non siete piú alla fine
del corpo, ma di là da esso. E se la superficie di un corpo non sia qualcosa di
positivo piuttosto che una mera negazione, io lascio giudicare ai matematici e
agli altri.
Ciò che, a parer mio, può aver dato occasione
d'inganno a costoro, è l'accezione volgare della parola “fine” quand'è
applicata alla durata, dove essa è comunemente intesa come cessazione di
esistenza: sebbene, a rigore, la fine della durata sia piú propriamente
l'ultimo momento dell'esistenza, e non qualcosa dopo di esso, sí che non è la
negazione dell'esistenza. Ma se costoro vorranno considerare la fine (finis)
come la negazione dell'esistenza, essi non potranno certamente negare che il
cominciare è la prima presentazione dell'essere o dell'esistenza, che nessuno
ritiene già una mera negazione, ma anzi qualcosa di positivo: sí che, secondo
il loro stesso modo di ragionare, la rimozione di questa positività non è che
una mera negazione, onde la loro idea di un'eternità a parte ante [“che
precede l'inizio”], ossia di un essere senza principio, è soltanto un'idea
negativa. Quanto all'eternità a parte post [“che segue la fine”],
nessuno dice che essa sia infinita actu [“in atto”], ma solo potentia
[“in potenza”]: quando, per esempio, noi applichiamo l'idea di infinito
all'anima nostra, non pensiamo ch'essa sia attualmente infinita, ma che non
debba aver mai fine, ossia che debba sempre continuare ad esistere od avere
un'addizione di durata, ma non mai che abbia un'infinità: sí che la sua è
semplicemente l'infinità dei numeri, che non è mai attuale, ma è sempre
suscettibile di addizione. E quando, poi, parliamo di un potere, di un
conoscere, ecc., infinito, noi intendiamo unicamente - come avrò forse
occasione di mostrare piú avanti - un potere o un conoscere che non può essere
limitato o resistito da nessuna cosa che esista o possa esistere: onde questa
non è una nozione di una positiva infinità attuale, ma solo di un'infinità
potenziale, come quella dei numeri, i cui limiti non possiamo attingere neppure
col pensiero. L'infinito, dunque, è per noi ciò ad cuius finem pervenire non
possumus [“di cui non possiamo giungere alla fine”].
(J. Locke, Saggio sull'intelligenza umana,
Bari, Laterza, 1951, vol. II, pagg. 538-540)