Il passo seguente tratta il problema della vergogna provata appena dopo la liberazione del campo di Auschwitz da Levi e dimostra come l'essere liberati non sempre sia un fatto positivo. Inoltre spiega il perché non sempre gli scampati vengano ringraziati come ci si aspetterebbe.
A mio avviso, il senso di vergogna o di colpa che coincideva con la riacquistata libertà era fortemente composito: conteneva in sé elementi diversi, ed in proporzioni diverse per ogni singolo individuo. Va ricordato che ognuno di noi, sia oggettivamente, sia soggettivamente, ha vissuto il Lager a suo modo.
All'uscita dal buio, si soffriva per la riacquistata consapevolezza di
essere stati menomati. Non per volontà né per ignavia né per colpa, avevamo
tuttavia vissuto per mesi o anni ad un livello animalesco: le nostre giornate
erano state ingombrate dall'alba alla notte dalla fame, dalla fatica, dal
freddo, dalla paura, e lo spazio di riflettere, per ragionare, per provare
affetti, era annullato. Avevamo sopportato la sporcizia, la promiscuità e la
destituzione soffrendone assai meno di quanto ne avremmo sofferto nella vita
normale, perché il nostro metro morale era mutato. Inoltre, tutti avevamo
rubato: alle cucine, alla fabbrica, al campo, insomma <
(Primo Levi, I sommersi e i salvati, Einaudi Tascabili, p.57)
[...] Hai vergogna perché sei vivo al posto di un altro? Ed in specie, di un uomo più generoso, più sensibile, più savio, più utile, più degno di vivere di te? Non lo puoi escludere: ti esamini, passi in rassegne i tuoi ricordi, sperando di ritrovarli tutti, e che nessuno di loro si sia mascherato o travestito; no, non trovi trasgressioni palesi, non hai soppiantato nessuno, non hai picchiato (ma ne avresti avuto la forza?), non hai accettato cariche (ma non ti sono state offerte…), non hai rubato il pane di nessuno; tuttavia non lo puoi escludere. E’ solo una supposizione, anzi, l’ombra di un sospetto: che ognuno sia il Caino di suo fratello, che ognuno di noi (ma questa volta dico “noi” in un senso molto ampio, anzi universale) abbia soppiantato il suo prossimo, e viva in vece sua. E’ una supposizione, ma rode; si è annidata profonda, come un tarlo; non si vede dal di fuori, ma rode e stride.
(Primo Levi, I sommersi e i salvati, Einaudi, Torino, 1986, p. 62)
[…] E c’è un’altra vergogna più vasta, la vergogna del mondo. E’ stato detto memorabilmente da John Donne, e citato innumerevoli volte, a proposito e non, che “nessun uomo è un’isola”, e che ogni campana di morte suona per ognuno. Eppure c’è chi davanti alla colpa altrui, o alla propria, volge le spalle, così da non vederla e non sentirsi toccato: così hanno fatto la maggior parte dei tedeschi nei dodici anni hitleriani, nell’illusione che il non vedere fosse un non sapere, e che il non sapere li alleviasse dalla loro quota di complicità o connivenza. Ma a noi lo schermo dell’ignoranza voluta, il “partial shelter” di T.S.Elliot, è stato negato: non abbiamo potuto non vedere. Il mare di dolore, passato e presente, ci circondava, ed il suo livello è salito di anno in anno fino quasi a sommergerci. Era inutile chiudere gli occhi o volgergli le spalle, perché era tutto intorno, in ogni direzione fino all’orizzonte. Non ci era possibile, e non abbiamo voluto essere isole; i giusti fra noi, non più né meno numerosi che in qualsiasi altro gruppo umano, hanno provato rimorso, vergogna, dolore insomma, per la colpa che altri e non loro avevano commessa, ed in cui si sono sentiti coinvolti, perché sentivano che questo era avvenuto intorno a loro, ed in loro presenza, e in loro, era irrevocabile. Non avrebbe potuto essere lavato mai più; avrebbe dimostrato che l’uomo, il genere umano, noi insomma, eravamo potenzialmente capaci di costruire una mole infinita di dolore; e che il dolore è la sola forza che si crei dal nulla, senza spesa e senza fatica. Basta non vedere, non ascoltare, non fare.
(Primo Levi, I sommersi e i salvati, Einaudi, Torino, 1986, pp. 66 - 67)