In questo passo dal sapore anticipatamente adorniano, Leopardi osserva una progressiva decandenza della guerra nel suo significato antico di prevaricazione naturale del più forte sul debole. Le armi da fuoco, qui prese come intrusioni della tecnica, appiattiscono i valori in campo e contaminano l'atto di eroismo puro tanto da confonderlo con la viltà. Da notare che si contrappongono alla natura la ragione e l'arte, intese come edificatrici di una tecnica artificiale che elimina le differenze di abilità naturali tra gli uomini.
L'invenzione e l'uso delle armi da fuoco, ha combinato perfettamente colla tendenza presa dal mondo in ordine a qualunque cosa, e derivata naturalmente dalla preponderanza della ragione e dell'arte, colla tendenza, dico, di uguagliar tutto. Così le armi da fuoco, hanno uguagliato il forte al debole, il grande al piccolo, il valoroso al vile, l'esercitato all'inesperto, i modi di combattere delle varie nazioni: e la guerra ancor essa ha preso un equilibrio, un'uguaglianza che sembrava contraria direttamente alla sua natura. E l'artifizio, sottentrando alla virtù, ed agguagliandola, e anche superandola e rendendola inutile, ha pareggiato gli individui, tolta la verità, spento quindi anche nella guerra, l'entusiasmo quasi del tutto, spenta l'emulazione e toltale la materia, spento l'eroismo, giacché tanto vale un soldanto eroe, quanto un Martano, o se anche non l'ha spento, l'ha confuso colla viltà, e reso indistinguibile e quindi senza eccitamento e senza premio: infine ha contribuito sommamente anche per questa parte a mortificare il mondo e la vita. Tanto è vero che il bello, il grande, il vario, non si trova se non che nella natura, e si perde subito appena si esce da lei, appena sottentrano l'arte e la ragione, in qualunque cosa. (14 febbraio 1821).
(G. Leopardi, Zibaldone di pensieri, Mondadori, scelta a cura di Anna Maria Moroni, pag. 354, volume primo)