LOCKE, La felicità muove il desiderio

 

42. Se si domandasse ancora che cosa sia che muove il desiderio, risponderei: la felicità, ed essa sola. La felicità e l’infelicità sono i nomi di quegli estremi, dei quali non conosciamo i più lontani confini; si tratta di ciò che "occhio non ha visto, orecchio non ha udito, né mai cuore d’uomo ha potuto concepire". Abbiamo tuttavia delle impressioni molto vivaci di certi gradi di entrambe, impressioni fatte sopra di noi da molti esempi di diletto o gioia da un lato, di tormento e dolore dall’altro; i quali gradi, per brevità, li comprenderò tutti nei nomi di piacere e dolore; poiché il piacere e il dolore sono dello spirito come del corpo, - "In Lui sarà la pienezza della gioia, e il piacere in eterno". O meglio, per parlare con verità, entrambi appartengono allo spirito, sebbene alcuni abbiano origine nello spirito dal pensiero, altri nel corpo da certe modificazioni del movimento. 43. La felicità, dunque, nella sua estensione piena, è il massimo piacere di cui siamo capaci, e l’infelicità è la massima pena; e l’estremo grado di ciò che può esser chiamato felicità è di essere tanto liberi da ogni pena, e di aver tanto piacere presente, da non poter essere contenti con meno. Ora, siccome il piacere e la pena sono prodotti in noi dall’operazione di certi oggetti, o sui nostri spiriti o sui nostri corpi, e in gradi diversi, ciò che è atto a produrre piacere in noi è quello che chiamiamo bene, e ciò che è atto a produrre pena chiamiamo male; e per nessun’altra ragione tranne la sua attitudine a produrre in noi piacere o pena, nelle quali cose consiste la nostra felicità o infelicità. Inoltre, sebbene ciò che è atto a produrre un qualunque grado di piacere sia esso stesso buono in se stesso, e ciò che è atto a produrre un qualunque grado di dolore sia un male, tuttavia accade spesso che noi non diamo loro questi nomi quando l’uno o l’altro si trovi in concorrenza con un male o un bene maggiore; poiché, quando questa concorrenza si verifica, giustamente si darà la preferenza alle cose che abbiano in sé un maggior grado di bene o un minor grado di male. Per cui, se vorremo giustamente giudicare cosa sia che chiamiamo buono o cattivo, troveremo che, per la maggior parte, esso consiste in un raffronto: poiché la causa di ogni minor grado di dolore, come di ogni maggior grado di piacere, possiede la natura del bene, e viceversa. 44. - Sebbene questo sia ciò che viene chiamato bene e male, e tutto il bene sia l’oggetto proprio del desiderio in generale, tuttavia ogni bene, anche se visto e professato tale, non muove necessariamente il desiderio di ogni uomo in particolare; ciò che lo muove invece è quella parte o misura di esso che viene considerata ed assunta come parte necessaria della sua felicità. Ogni altro bene, per quanto grande nella realtà o nell’apparenza, non stimola i desideri di chi non lo consideri come facente parte di quella felicità della quale egli, nel suo pensiero in atto, può giudicarsi contento. Considerata da questo punto di vista, ognuno persegue costantemente la felicità, e desidera tutto ciò che in qualche modo ne fa parte; altre cose, pure riconoscendole buone, egli le può contemplare senza desiderio, trascurarle ed esser contento senza di esse. Nessuno, penso, sarà tanto insensato da negare che vi sia un piacere nella conoscenza; e quanto ai piaceri dei sensi, essi hanno troppi seguaci perché si possa dubitare che gli uomini ne siano attratti. Ora, poniamo che una persona riponga la sua soddisfazione nei piaceri sensuali, un’altra nel diletto della conoscenza: sebbene ciascuna di loro non possa non confessare che si trova un grande piacere in ciò che l’altra persegue, tuttavia, poiché nessuno dei due fa del piacere dell’altro una parte della sua propria felicità, i loro desideri non ne sono mossi, bensì ciascuno è soddisfatto pur non avendo la cosa che all’altro dà piacere; e così la volontà sua non viene determinata a perseguirla. Però, non appena la fame e la sete vengono a porre a disagio l’uomo di studio, sebbene la sua volontà non sia mai stata determinata da alcun desiderio della buona tavola, delle salse piccanti, dei vini prelibati, per il sapore gradevole che aveva trovato in essi, dal disagio determinato in lui dalla fame e dalla sete egli verrà senz’altro indotto a mangiare e a bere, sebbene forse con grande indifferenza, qualunque cibo sano egli trovi a portata di mano. E d’altro lato l’epicureo si butterà agli studi quando la vergogna, o il desiderio di farsi un titolo agli occhi della dama, lo pongano a disagio per la sua mancanza di una cultura qualsiasi. Così, per quanto gli uomini siano sempre appassionati e perseveranti nel perseguire la felicità, essi possono avere tuttavia una visione chiara del bene, di un bene grande e riconosciuto per tale, senza esserne interessati o mossi, quando pensino di poter ottenere la loro felicità senza di esso. Però, in ciò che riguarda il dolore, di questo essi si preoccupano sempre; non si dà il caso che si sentano a disagio senza che ciò li muova o spinga. E perciò, essendo a disagio per la mancanza di qualunque cosa sia giudicata necessaria alla loro felicità, non appena un bene qualunque appaia come cosa che faccia parte della loro felicità, essi cominciano a desiderarlo. 45.- Questo, penso, ognuno può osservarlo in sé e negli altri, che il maggior bene visibile non suscita sempre i desideri degli uomini in proporzione alla grandezza che sembra avere e che gli è riconosciuta; sebbene poi ogni minimo disagio ci muova e ci ponga all’opera per liberarcene. La ragione di questo è evidente per la natura stessa della nostra felicità e infelicità. Ogni dolore presente, quale che esso sia, viene a far parte della nostra presente infelicità; ma ogni bene assente non forma in ogni momento una parte necessaria della nostra presente felicità, né l’assenza sua fa parte della nostra infelicità. Se non fosse così, noi saremmo continuamente ed infinitamente infelici, poiché vi sono infiniti gradi di felicità che non sono in nostro potere. Perciò, quando ogni disagio sia stato rimosso, una misura moderata di bene basta a contentare gli uomini al presente; e un piacere di modesta intensità, in un succedersi di godimenti ordinari, costituisce una felicità di cui essi riescono ad esser contenti. Se così non fosse, non ci sarebbe posto per quelle azioni insignificanti ed evidentemente frivole, alle quali si determina così spesso la nostra volontà, e nelle quali sprechiamo volontariamente una parte così grande della nostra vita; e questa facilità ad abbandonarsi non si concilierebbe in alcun modo con una determinazione costante della volontà o del desiderio di procurare il massimo bene apparente. E che la cosa stia così, penso che assai pochi abbiano bisogno di andar lontano da casa loro per convincersene. E invero, non sono molti in questa vita coloro che hanno una felicità capace di procurare loro un succedersi costante di piaceri modesti e moderati, senza alcuna mescolanza di disagio; eppure, essi sarebbero ben contenti di rimanere per sempre quaggiù, sebbene non possano negare che sia possibile che esista uno stato di gioia eterna e durevole dopo questa vita, il quale supera tutto il bene che si può trovare quaggiù. Anzi, non possono fare a meno di vedere che quello stato perfetto ha in sé una maggiore possibilità che non il raggiungimento e la continuazione di quel modesto piatto di onori, di ricchezze o di piaceri che essi perseguono qui, e per il quale trascurano lo stato eterno. E tuttavia, pur avendo pienamente chiara alla vista questa differenza, ed essendo convinti della possibilità di una felicità perfetta, sicura e durevole in uno stato futuro, e del tutto persuasi che una felicità simile non può essere ottenuta quaggiù, - mentre limitano la loro felicita entro il raggio di qualche piccolo godimento o finalità di questa vita, ed escludono le gioie del cielo dal rango delle cose che dovrebbero costituire una parte necessaria della loro vita presente, - i loro desideri non sono mossi da questo maggior bene apparente, né le loro volontà sono determinate ad alcuna azione o sforzo per raggiungerlo. 46.- Le necessità ordinarie della nostra vita riempiono una grande parte di essa col disagio della fame, della sete, del caldo, del freddo, della stanchezza, della fatica e del sonno, col loro costante ricorrere, ecc., e se a ciò, oltre i mali accidentali, aggiungiamo i disagi chimerici (come il prurito degli onori, della potenza, della ricchezza, ecc.), che sono stati determinati in noi da abiti acquisiti a causa della moda, dell’esempio e dell’educazione, e se aggiungiamo altri mille desideri irregolari, che il costume ha reso naturali in noi, troveremo che solo una minima parte della nostra vita è così vuota di questi disagi da lasciarci liberi di sentire l’attrazione di un bene più remoto ed assente. Raramente siamo a nostro agio, e abbastanza liberi dallo stimolo dei nostri desideri naturali o adottati; la volontà è invece dominata volta a volta da un succedersi costante di disagi, derivati da quella grande riserva che è stata accumulata in noi dai bisogni naturali e dagli abiti acquisiti; e non appena si è conclusa una certa azione, alla quale siamo stati indotti da una cosiffatta determinazione della volontà, già un altro disagio e lì pronto a farci muovere. Invero, l’eliminazione dei dolori che stiamo provando, e da cui siamo attualmente assillati, significando la liberazione dall’infelicità, e perciò la prima cosa da fare per andare verso la felicità, avviene che un bene lontano, anche se uno vi pensi, lo riconosca e lo veda come un bene, poiché non costituisce alcuna parte della sua infelicità per il fatto di essere lontano, viene cacciato fuori dallo spirito, per far posto alla preoccupazione di eliminare questi disagi che attualmente proviamo; e questo avverrà fino a tanto che una debita e ripetuta contemplazione non abbia portato quel bene più vicino al nostro spirito, non ci abbia fatto sentire il gusto di esso, e non abbia suscitato in noi qualche desiderio: il qual desiderio, venendo allora a far parte del nostro disagio presente, ha qualche possibilità di poter concorrere cogli altri desideri a che venga soddisfatto; e così, a seconda della sua grandezza ed urgenza, viene a sua volta a determinare la volontà. 47. - Perciò, mediante una debita considerazione, ed esaminando un qualunque bene che ci si prospetti, è in poter nostro stimolare i desideri in misura adeguata al valore di quel bene, in modo che, a suo tempo e luogo, esso possa venire ad operare sulla volontà, e sia perseguito. Poiché il bene, sebbene sia evidente e gli si riconosca anche un immenso valore, finché non abbia suscitato dei desideri nel nostro spirito, e in tal modo ci abbia messi a disagio per la sua mancanza, non raggiunge la nostra volontà; non siamo entro la sfera della sua attività, poiché la volontà nostra è determinata solo da quei disagi che ci sono presenti, i quali, finché ne esistano, sempre ci sollecitano, e sono sempre a tiro di mano, pronti a comunicare alla volontà la sua determinazione successiva. Perciò lo spirito, quando si trovi in qualunque modo a soppesare il valore relativo delle cose, deve decidere solo quale desiderio vorrà soddisfare per primo, quale disagio vorrà per primo eliminare. E così accade che, fintanto che rimanga nel nostro spirito un qualunque desiderio, non c’è posto in esso perché il bene, semplicemente come tale, raggiunga la volontà o in alcun modo la determini. Poiché, come si è detto, il primo passo nei nostri sforzi verso la felicità consistendo nel portarsi interamente fuori dai confini dell’infelicità, così da non sentirne più alcuna parte, la volontà non può avere momenti di ozio per dedicarsi ad alcun’altra cosa finché non sia del tutto eliminato ogni disagio che noi sentiamo: ma non è probabile che dal disagio riusciamo mai a liberarci in questo mondo, ove si pensi alla moltitudine di bisogni e desideri da cui siamo assillati nel nostro imperfetto stato presente. 48. - Poiché esistono in noi disagi in gran numero, che sempre sollecitano la volontà nostra e son pronti a determinarla, è naturale, come ho detto, che i maggiori e più urgenti determinino la volontà alla sua azione immediata; e così avviene nella maggior parte dei casi, ma non sempre. Poiché, il più delle volte, lo spirito ha il potere di tenere in sospeso l’esecuzione di un atto e la soddisfazione di un suo qualunque desiderio, com’è evidente dall’esperienza; e così esso può tenerli in sospeso tutti, uno dopo l’altro; è libero di considerarne gli oggetti, di esaminarli da ogni lato e di pesarli in rapporto ad altri. La libertà che ha l’uomo sta in questo; e dal non usarla giustamente viene tutta quella massa di sbagli, errori e difetti nei quali cadiamo nella condotta della nostra vita e nei nostri sforzi verso la felicità: ossia dal fatto che precipitiamo la determinazione della nostra volontà, e ci impegniamo troppo presto prima di aver debitamente esaminato la cosa. A impedir ciò, abbiamo il potere di poter sospendere il perseguimento di questa o quella cosa desiderata, come ognuno può sperimentare in se stesso ogni giorno. Questa mi sembra la fonte di ogni libertà; in questo sembra consistere ciò che (impropriamente, a mio parere) è chiamato libero arbitrio. Poiché, durante questa sospensione di ogni desiderio, prima che la volontà sia determinata all’azione e che sia compiuta l’azione che segue a quella determinazione medesima, abbiamo la possibilità di esaminare, renderci conto e giudicare del bene e del male di ciò che stiamo per fare; e quando, dopo un debito esame, abbiamo giudicato, abbiamo fatto il dover nostro, ossia tutto ciò che possiamo o dobbiamo fare ai fini della nostra felicità; e non è un difetto, bensì una perfezione della nostra natura, che si desideri, si voglia e si agisca secondo l’ultimo risultato di un esame onesto.

 

(J. Locke, Saggio sull’intelletto umano, libro II, 21, 42-48)