LOCKE, la scommessa sul futuro

 

72. Qui non mi dilungherò ulteriormente sugli errati giudizi e sulla negligenza delle cose che sono in loro potere, che portano gli uomini sulla cattiva strada. Ci vorrebbe un volume, e non è il compito che mi sono proposto. Ma per quanto delle nozioni false, o la vergognosa negligenza di ciò che è in loro potere, possano fuorviare gli uomini dal sentiero della felicità, e, come spesso vediamo, avviarli ad abiti di vita così divergenti da quello, una cosa è tuttavia certa, che la morale, stabilita sui suoi fondamenti veraci, non può non determinare la scelta in chiunque voglia darsi la pena di esaminare le proprie azioni; e chi non voglia essere una creatura razionale di quel tanto che occorre per riflettere seriamente sulla infinita felicità e infelicità, inevitabilmente dovrà dare la colpa a se stesso per non aver fatto l’uso che avrebbe dovuto della propria intelligenza. I compensi e le punizioni di un’altra vita, che l’Onnipotente ha stabiliti come sanzioni della sua legge, hanno un peso sufficiente per determinare la scelta, di contro a qualunque piacere o dolore possa sfoggiare questa vita presente, quando si consideri anche solo la mera possibilità di uno stato eterno, della quale nessuno può dubitare. Chi riconosca che una felicità squisita e senza fine è una conseguenza anche soltanto possibile di una vita buona quaggiù, e che la condizione contraria è la possibile sanzione di una vita cattiva, dovrà riconoscere di giudicare assai male se non conclude: che una vita virtuosa, è da preferire a una vita viziosa, con la paura di quel terribile stato d’infelicità in cui, con grande probabilità, potrà cadere il colpevole; oppure, nella migliore delle ipotesi, la speranza incerta e terribile dell’annichilimento. La cosa sta evidentemente così, anche se la vita virtuosa quaggiù non portasse altro che pene, e quella viziosa un piacere continuo: il che, per lo più, è tutto il contrario del vero, e gli uomini malvagi non hanno gran cosa di cui vantarsi, anche nel presente possesso delle loro fortune; anzi, quando tutto sia ben considerato, io credo che essi abbiano quaggiù la parte peggiore. Ma quando sia messa sulla bilancia la felicità infinita da un lato, contro l’infelicità senza fine dall’altro, se il peggio che può sopraggiungere a un uomo pio, quando sbaglia, sia il meglio cui possa giungere mai un malvagio quando è nel giusto, chi potrà mai mettersi al rischio senza dare prova di pazzia? Qual uomo mai, sano di mente, sceglierebbe di esporsi alla possibilità di un’infinita miseria? Considerando che, anche se questa non venga, non c’è tuttavia nulla di buono che egli si possa procurare con questo rischio? Mentre, dall’altra parte, l’uomo virtuoso non arrischia nulla, contro la possibilità di una felicità infinita, se non si verifica ciò che egli spera. Se l’uomo virtuoso ha ragione, sarà felice in eterno; se non è nel vero, egli non sarà infelice, ma semplicemente non sentirà nulla. D’altro lato, se il malvagio è nel vero, non è comunque felice; se è nell’errore, sarà infinitamente infelice. Non dovrà essere dunque un giudizio manifestamente sbagliato quello che non vede senz’altro a quale lato debba esser data la preferenza in questo caso? Ho trascurato di far parola della certezza o probabilità di uno stato futuro essendo mia intenzione di mostrare qui soltanto il giudizio erroneo che deve riconoscere di aver fatto, in base ai suoi stessi principi, comunque fondati, chi preferisca i piaceri fuggevoli di una vita viziosa, in base a qualunque considerazione, quando sa che una vita futura è comunque possibile; e di questo non può non essere certo.

 

(J. Locke, Saggio sull’intelletto umano, libro II, 28, 5-13)