LUCREZIO, la morte non va temuta

 

In perfetta sintonia col verbo di Epicuro, Lucrezio argomenta che la morte non dev'essere temuta.



Anche se supponiamo che, dopo il distacco dal nostro corpo,
la natura dell'animo e il potere dell'anima serbano il senso,
questo tuttavia non importa a noi, che dall'unione e dal connubio
del corpo e dell'anima siamo costituiti e unitamente composti.
E quand'anche il tempo raccogliesse la nostra materia
dopo la morte e di nuovo la disponesse nell'assetto
in cui si trova ora e a noi fosse ridata la luce della vita,
tuttavia neppure questo evento ci riguarderebbe minimamente,
una volta che fosse interrotta la continuità della nostra coscienza.
Così ora a noi non importa nulla di noi, quali fummo in precedenza,
‹né› ormai per quel nostro essere ci affligge angoscia.
E invero, se volgi lo sguardo verso tutto lo spazio trascorso
del tempo illimitato, e consideri quanto siano molteplici
i movimenti della materia, facilmente puoi indurti a credere
che questi stessi atomi, di cui siamo composti ora, già prima
siano stati spesso disposti nel medesimo ordine in cui sono ora.
Eppure non possiamo riafferrare con la memoria quell'esistenza;
s'è interposta infatti una pausa della vita e sparsamente
tutti i moti si sviarono per ogni dove, lontano dai sensi.
Infatti, se sventura e affanno devono colpire qualcuno, occorre
che allora, in quel medesimo tempo, esista quella stessa persona
cui possa incoglier male. Ma, poiché la morte toglie ciò e impedisce
che esista colui a cui le disgrazie possano attaccarsi,
è chiaro che niente noi dobbiamo temere nella morte,
e che non può divenire infelice chi non esiste, né fa punto
differenza se egli sia nato o non sia nato in alcun tempo,
quando la vita mortale gli è stata tolta dalla morte immortale.

 

(Lucrezio, De rerum natura, III, 843-869)