La condizione ideale per un
principe è quella di essere ad un tempo amato e temuto, ma se non è possibile
avere le due cose insieme è da preferire l’essere temuto. La natura degli
uomini, infatti, è tale che è molto piú facile offendere chi si fa amare
piuttosto che chi si fa temere. Si noti, però, che essere temuto non può
significare essere odiato. Machiavelli insiste su questo concetto: il principe
non deve agire contro i sudditi in modo da provocarne l’odio. La crudeltà di
Annibale, ad esempio, è tollerata dai suoi soldati perché si accompagna a
“infinite virtú”: se le virtú da sole non bastano ad ottenere il rispetto,
nemmeno può ottenerlo da sola la libertà.
N. Machiavelli, Il Principe,
cap. XVII
Nasce da questo una disputa:
s’elli è meglio essere amato che temuto, o e converso. Respondesi, che si
vorrebbe essere l’uno e l’altro; ma, perché elli è difficile accozzarli
insieme, è molto piú sicuro essere temuto che amato, quando si abbia a mancare
dell’uno de’ dua. Perché delli uomini si può dire questo generalmente: che
sieno ingrati, volubili, simulatori e dissimulatori, fuggitori de’ pericoli,
cupidi di guadagno; e mentre fai loro bene, sono tutti tua, òfferonti el
sangue, la roba, la vita, e figliuoli come di sopra dissi, quando il bisogno è
discosto; ma, quando ti si appressa, e’ si rivoltano. E quel principe che si è
tutto fondato in sulle parole loro, trovandosi nudo di altre preparazioni,
rovina; perché le amicizie che si acquistono col prezzo e non con grandezza e
nobiltà d’animo, si meritano, ma elle non si hanno, et a’ tempi non si possono
spendere. E li uomini hanno meno respetto ad offendere uno che si facci amare,
che uno che si facci temere; perché l’amore è tenuto da uno vinculo di obbligo,
il quale, per essere li uomini tristi, da ogni occasione di propria utilità è
rotto; ma il timore è tenuto da una paura di pena che non ti abbandona mai.
Debbe non di manco el principe farsi temere in modo, che, se non acquista lo
amore, che fugga l’odio; perché può molto bene stare insieme esser temuto e non
odiato; il che farà sempre, quando si astenga dalla roba de’ sua cittadini e
de’ sua sudditi, e dalle donne loro: e quando pure li bisognassi procedere
contro al sangue di alcuno, farlo quando vi sia iustificazione conveniente e
causa manifesta; ma, sopra a tutto, astenersi dalla roba d’altri; perché li
uomini sdimenticano piú presto la morte del padre che la perdita del
patrimonio. Di poi, le cagioni del tôrre la roba non mancono mai; e, sempre,
colui che comincia a vivere con rapina, truova cagione di occupare quello
d’altri; e, per avverso, contro al sangue sono piú rare e mancono piú presto.
Ma, quando el principe è con li
eserciti et ha in governo multitudine di soldati, allora al tutto è necessario
non si curare del nome di crudele; perché sanza questo nome non si tenne mai
esercito unito, né disposto ad alcuna fazione. Intra le mirabili azioni di
Annibale si connumera questa, che, avendo uno esercito grossissimo, misto di
infinite generazioni di uomini, condotto a militare in terre aliene, non vi
surgessi mai alcuna dissensione, né infra loro né contro al principe, cosí
nella cattiva come nella sua buona fortuna. Il che non poté nascere da altro
che da quella sua inumana crudeltà, la quale, insieme con infinite sua virtú,
lo fece sempre nel conspetto de’ suoi soldati venerando e terribile; e sanza
quella, a fare quello effetto, le altre sua virtú non li bastavano. E li
scrittori poco considerati, dall’una parte ammirano questa sua azione,
dall’altra dannono la principale cagione di essa. E che sia vero che l’altre
sua virtú non sarebbero bastate, si può considerare in Scipione, rarissimo non
solamente ne’ tempi sua ma in tutta la memoria delle cose che si sanno, dal
quale li eserciti sua in Ispagna si rebellorono. Il che non nacque da altro che
dalla troppa sua pietà, la quale aveva data a’ sua soldati piú licenzia che
alla disciplina militare non si conveniva. La qual cosa li fu da Fabio Massimo
in Senato rimproverata, e chiamato da lui corruttore della romana milizia. E’
Locrensi, sendo stati da uno legato di Scipione destrutti, non furono da lui
vendicati, né la insolenzia di quello legato corretta, nascendo tutto da quella
sua natura facile; talmente che, volendolo alcuno in Senato escusare, disse
come elli erano di molti uomini che sapevano meglio non errare, che correggere
li errori. La qual natura arebbe col tempo violato la fama e la gloria di
Scipione, se elli avessi con essa perseverato nello imperio; ma, vivendo sotto
el governo del Senato, questa sua qualità dannosa non solum si nascose, ma li
fu a gloria.
Concludo adunque, tornando allo
essere temuto et amato, che, amando li uomini a posta loro e temendo a posta
del principe, debbe uno principe savio fondarsi in su quello che è suo, non in
su quello che è d’altri: debbe solamente ingegnarsi di fuggire lo odio, come è
detto.
N. Machiavelli, Il Principe e
Discorsi, Feltrinelli, Milano, 1960, pagg. 69–70