Nel Poema pedagogico
Anton Siemionovic Makarenko (1888-1939) racconta la sua esperienza di educatore
chiamato a dirigere, a partire dal 1920, una colonia di lavoro destinata alla
rieducazione di giovani abbandonati e disadattati. Davanti ai drammatici
problemi che si trova ad affrontare, matura in lui la convinzione di non
potersi affidare a nessuna teoria pedagogica, ma di dover ricavare indicazioni
dall’analisi dei fenomeni reali che si svolgevano sotto i suoi occhi. Egli
ritiene inoltre che l’educazione nella società socialista non poteva
richiamarsi alla “natura” e agli interessi del soggetto da educare, ma doveva
tener conto delle necessità politiche e sociali poste dalla costruzione del
socialismo in Unione Sovietica. Sulla base di queste premesse egli individua
nel “collettivo” lo strumento principale dell’educazione; all’interno di esso
deve infatti svolgersi la vita, il lavoro e tutta la formazione dell’individuo
che deve imparare – anche attraverso l’imposizione di una dura disciplina – a
subordinare i propri individuali interessi alle superiori esigenze sociali. Se
questa integrazione dell’individuo nel “collettivo” non riesce, non rimane
altro che l’espulsione: è questo il caso che viene riportato in queste pagine.
A. S. Makarenco, Poema
pedagogico
Il caso Opriscko
Giunse
l’anno 1925. Incominciò in maniera abbastanza spiacevole.
Durante
il consiglio dei comandanti Opriscko dichiarò di volersi sposare e che il
vecchio Lukascenko non avrebbe concessa Marussia se la colonia non avesse
assegnato ad Opriscko la stessa dote di Olia Voronova. In caso affermativo
Lukascenko avrebbe preso Opriscko in casa sua, per lavorare insieme.
Opriscko
si comportava durante il consiglio dei comandanti in modo poco simpatico,
sentendosi il successore di Lukascenko, cioè un uomo con una posizione.
I
comandanti tacevano, perplessi di fronte a tutta quella storia. Finalmente
Lapot fissò Opriscko, tenendo vicina all’occhio la punta d’una matita
capitatagli per caso in mano, e gli chiese a voce non molto alta:
– Va
bene, Dmitro, e poi? Lavorare con Lukascenko significa diventare uno del
villaggio, vero?
Opriscko
lanciò a Lapot (presidente dell’Assemblea) un’occhiata da sopra una spalla e
sorrise sarcasticamente:
– Se
cosí ti piace, va bene: del villaggio.
–
Secondo te non è cosí forse?
– Si
vedrà poi.
– Ho
capito, – disse Lapot. – Qualcuno vuol parlare?
Prese
la parola Volokhov, comandante del sesto reparto:
– I
ragazzi devono cercarsi un posto nella vita, è vero. Non si può restare nella
colonia fino alla vecchiaia. E che qualifica abbiamo? Quelli del sesto o del
quarto, o del nono reparto si trovano ancora abbastanza bene, possono partire
da qui come fabbri, o falegnami, o pratici del mulino. Ma nei reparti agricoli
non si ottiene nessuna qualifica e quindi se vuol fare il contadino vada pure.
Solo che nella questione di Opriscko c’è qualcosa di sospetto. Non sei un
“giovane comunista”?
–
Ebbene, e con questo?
– Io
penso, – continuò Volokhov, – che non sarebbe male se di questa faccenda si
occupasse prima di tutto la “Gioventú comunista”. Il consiglio dei comandanti
vuole conoscerne l’opinione.
– Il
comitato della “Gioventú comunista” un’opinione ce l’ha già, – disse Koval. –
La colonia Gorki non è fatta per allevare dei kulak. Lukascenko è un kulak.
– Perché
kulak? – protestò Opriscko. – Se ha la casa col tetto di ferro non vuole ancora
dire.
– E
possiede due cavalli?
– Sí,
due.
– E ha
un bracciante?
–
Nessun bracciante.
– [...]
Comunque non c’è nessun bisogno che creiamo ancora un kulak.
–
Allora come devo fare?
_ Come
vuoi.
– No,
cosí non va, – disse Stupitsyn. – Se sono innamorati, si sposino pure. Possiamo
dare anche la dote a Dmitro, solo non deve andare da Lukascenko, ma nella
comune. Ora là comanderà Olga.
– Il
padre non lascerà che Marussia ci vada.
– E
Marussia se ne infischi del padre.
– Non
lo può fare.
–
Allora non ti ama abbastanza... ed è, in generale, figlia di kulak.
– Che
ne sai tu se mi ama o non mi ama?
– Posso
anche saperlo. Si vede che ti sposa piú che altro per un calcolo. Se ti amasse...
– Forse
mi ama, ma obbedisce al padre. E non può entrare nella comune.
– Se
non può, inutile che tu rompa le scatole al consiglio dei comandanti! – lo
interruppe bruscamente Kudlatyi. – Tu vorresti sistemarti per benino presso un
kulak, mentre Lukascenko è contento di avere con sé un genero ricco. E a noi
che ce ne importa? Togliamo la seduta...
Lapot
allargò la bocca fino alle orecchie in un sorriso di soddisfazione:
– Tolgo
la seduta per scarso innamoramento di Marussia.
[...]
Opriscko
rimase sbalordito. Camminava piú scuro di una nuvola, dava noia ai ragazzi piú
piccoli, il giorno dopo si ubriacò e fece una chiassata in dormitorio.
Il
consiglio dei comandanti si riuní per giudicare Opriscko a causa
dell’ubriacatura.
Tutti
apparivano tetri e tetro era anche Opriscko, fermo accanto alla parete. Lapot
disse:
–
Benché tu sia un comandante, ora devi rispondere per un affare personale,
quindi mettiti nel mezzo.
Era
costume che il colpevole stesse nel mezzo della stanza.
Opriscko
squadrò il presidente, quindi mormorò:
– Non
ho rubato nulla e non mi metterò nel mezzo.
– Ti ci
metteremo, – disse sottovoce Lapot.
Opriscko
si guardò attorno e comprese che lo avrebbero fatto davvero. Si staccò dalla
parete e passò nel mezzo della stanza.
– E va
bene.
–
Mettiti sull’attenti, – ordinò Lapot.
Opriscko
si strinse nelle spalle, sorrise con aria di sfida, ma tuttavia abbassò le
braccia e si drizzò sulla persona.
– Ora
dicci, come hai avuto il coraggio di ubriacarti e di urlare in camerata, tu che
sei “giovane comunista”, comandante e membro della colonia? Rispondi.
– Non
ho niente da dire: sono colpevole e basta.
– No,
ci devi dire come hai osato!
Opriscko
socchiuse gli occhi con espressione bonaria ed ebbe un gesto incerto:
– Ma
forse che ci vuole del coraggio? Ho bevuto perché ero triste e, quando si è
ubriachi, non si risponde delle proprie azioni.
– Sono
balle, – disse Anton. – Tu dovrai risponderne. Sbagli se pensi il contrario.
Dobbiamo cacciarlo dalla colonia e basta. E cacciare chiunque si ubriachi...
Senza pietà!
– Ma
andrà in malora, – intervenne Ghiorghievski, sgranando gli occhi.
–
Diventerà un vagabondo, andrà in malora.
– Ci
vada pure.
– Ma è
stato per tristezza! Via, non vi accanite tanto! Uno soffre e voi lo tormentate
col consiglio dei comandanti! – Ossadcii osservava con aperta ironia la
fisionomia bonaria di Opriscko.
–
Inoltre Lukascenko non lo vorrà se non gli porta un po’ di roba, – disse
Taraniets.
– Ce ne
infischiamo! – gridava Anton. – Se Lukascenko non lo vuole, che Opriscko si
cerchi un altro kulak...
–
Perché cacciarlo via? – incominciò Ghiorghievski in tono indeciso. – È un
vecchio colonista; è vero, ha sbagliato, ma si correggerà. Bisogna pure tener
presente che egli e Marussia sono innamorati. Dobbiamo aiutarli in qualche
modo...
– Ma
che, è un ragazzo abbandonato, forse? – fece stupito Lapot. – Di che cosa si
deve correggere? È un colonista.
Prese
la parola Schneider, nuovo comandante dell’ottavo reparto.
Schneider
disse:
– Se
Opriscko fosse un novellino, gli si potrebbe anche perdonare. Ma ora non è
assolutamente possibile. Opriscko ha dimostrato di infischiarsene del
collettivo. Pensate che sia l’ultima volta che gli succede? Tutti sanno che non
è cosí. Io non voglio che Opriscko si tormenti, a che serve? Ma che viva un po’
senza il nostro collettivo e allora capirà. E dobbiamo mostrare anche agli
altri che non possiamo ammettere certi atteggiamenti da kulak. L’ottavo reparto
chiede l’espulsione.
La
richiesta dell’ottavo reparto aveva un valore decisivo a causa di una
particolare circostanza: nell’ottavo reparto non c’erano quasi novellini. I
comandanti mi lanciavano delle occhiate interrogative e Lapot mi diede la
parola:
– Mi
pare che sia tutto chiaro. Anton Siemionovic, volete esprimere il vostro
parere?
–
Cacciarlo, – dissi io brevemente.
(R. Tassi, Itinerari pedagogici del Novecento,
Zanichelli, Bologna, 1996, pagg. 47-49)