B. de Mandeville, La favola
delle api
Un numeroso sciame di api abitava
un alveare spazioso. Là, in una felice abbondanza, esse vivevano tranquille.
Questi insetti, celebri per le loro leggi,
non lo erano meno per il successo delle loro armi e per il modo in cui
si moltiplicavano. La loro dimora era un perfetto seminario di scienza e
d’industria. Mai api vissero sotto un governo piú saggio; tuttavia mai ve ne
furono di piú incostanti e di meno soddisfatte. Esse non erano né schiave
infelici di una dura tirannia, né erano esposte ai crudeli disordini della
feroce democrazia. Esse erano condotte da re che non potevano errare, perché il
loro potere era saggiamente vincolato dalle leggi.
Questi insetti, imitando ciò che
si fa in città, nell’esercito e nel foro, vivevano perfettamente come gli
uomini ed eseguivano, per quanto in piccolo, tutte le loro azioni. Le opere
meravigliose compiute dall’abilità incomparabile delle loro piccole membra
sfuggivano alla debole vista degli uomini; tuttavia non vi sono presso di noi
né macchine, né operai, né mestieri, né navi, né cittadelle, né armate, né
artigiani, né astuzie, né scienza, né negozi, né strumenti, insomma non v’è
nulla di ciò che si vede presso gli uomini di cui questi operosi animali pure
non si servissero. E siccome il loro linguaggio ci è sconosciuto, non possiamo
parlare di ciò che le riguarda se non impiegando le nostre impressioni. Si
ritiene generalmente che tra le cose degne d’esser notate, questi animali non
conoscevano affatto l’uso né dei bossoli né dei dadi; ma, poiché avevano dei
re, e conseguentemente delle guardie, si può naturalmente presumere che
conoscessero qualche specie di giochi. Si vedono mai, infatti, degli ufficiali
e dei soldati che si astengono da questo divertimento?
Il fertile alveare era pieno di
una moltitudine prodigiosa di abitanti, il cui grande numero contribuiva pure
alla prosperità comune. Milioni di api erano occupate a soddisfare la vanità e
le ambizioni di altre api, che erano impiegate unicamente a consumare i
prodotti del lavoro delle prime. Malgrado una cosí grande quantità di operaie,
i desideri di queste api non erano soddisfatti. Tante operaie e tanto lavoro
potevano a mala pena mantenere il lusso della metà della popolazione.
Alcuni, con grandi capitali e
pochi affanni, facevano dei guadagni molto considerevoli. Altri, condannati a
maneggiare la falce e la vanga, non potevano guadagnarsi la vita se non col
sudore della fronte e consumando le loro forze nei mestieri piú penosi. Si
vedevano poi degli altri applicarsi a dei lavori del tutto misteriosi, che non
richiedevano né apprendistato, né sostanze, né travagli. Tali erano i cavalieri
d’industria, i parassiti, i mezzani, i giocatori, i ladri, i falsari, i maghi,
i preti, e in generale tutti coloro che, odiando la luce, sfruttavano con
pratiche losche a loro vantaggio il lavoro dei loro vicini, che non essendo
essi stessi capaci d’ingannare, erano meno diffidenti. Costoro erano chiamati
furfanti; ma coloro i cui traffici erano piú rispettati, anche se in sostanza
poco differenti dai primi, ricevevano un nome piú onorevole. Gli artigiani di
qualsiasi professione, tutti coloro che esercitavano qualche impiego o che
ricoprivano qualche carica, avevano tutti qualche sorta di furfanteria che era
loro propria. Erano le sottigliezze dell’arte e l’abilità di mano.
Come se le api non avessero
potuto, senza istruire un processo, distinguere il legittimo dall’illegittimo,
esse avevano dei giureconsulti, occupati a mantenere le animosità e a suscitare
malefici cavilli: questo era lo scopo della loro arte. Le leggi fornivano loro
i mezzi per rovinare i loro clienti e per approfittare destramente dei beni in
questione. Preoccupati, soltanto di ricavare degli elevati onorari, non
trascuravano nulla al fine d’impedire che si appianassero le difficoltà
attraverso un accomodamento. Per difendere una cattiva causa, essi analizzavano
le leggi con la stessa meticolosità con cui i ladri esaminano i palazzi e i
negozi. Ciò soltanto allo scopo di scoprire il punto debole in cui potessero
prevalere.
I medici preferivano la
reputazione alla scienza e le ricchezze alla guarigione dei loro malati. La
maggior parte, anziché applicarsi allo studio dei princípi della loro
disciplina, cercavano di acquistarsi una pratica fittizia. Sguardi gravi e
un’aria pensosa erano tutto quello ch’essi possedevano per darsi la reputazione
di uomini dotti. Non preoccupandosi della salute dei pazienti, essi lavoravano
soltanto per acquistarsi il favore dei farmacisti, e per conquistarsi le lodi
delle levatrici, dei preti e di tutti coloro che vivevano dei proventi tratti
dalle nascite o dai funerali. Preoccupati di acquistarsi il favore del sesso
loquace, essi ascoltavano con compiacenza le vecchie ricette della signora zia.
I clienti, e tutte le loro famiglie, erano trattati con molta attenzione. Un
sorriso affettato, degli sguardi graziosi, tutto era impiegato e serviva ad
accattivarsi i loro spiriti già prevenuti. E si badava pure a trattare bene le
guardie, per non doverne subire le impertinenze.
Tra il grande numero dei preti di
Giove, pagati per attirare sull’alveare la benedizione del cielo, ve n’erano
ben pochi che avessero eloquenza e sapere. La maggior parte erano tanto
presuntuosi quanto ignoranti. Erano visibili la loro pigrizia, la loro
incontinenza, la loro avarizia e la loro vanità, malgrado la cura ch’essi si
prendevano per nascondere agli occhi del pubblico questi difetti. Essi erano
furfanti come dei borsaioli, intemperanti come dei marinai. Alcuni invece erano
pallidi, coperti di vestiti laceri e pregavano misticamente per guadagnarsi il
pane. E, mentre che questi sacri schiavi morivano di fame, i fannulloni per cui
essi officiavano, si trovavano bene a loro agio. Si vedevano sui loro volti la
prosperità, la salute e l’abbondanza di cui godevano.
I soldati che erano stati messi
in fuga venivano egualmente coperti di onori, se avevano la fortuna di sfuggire
all’esercito vittorioso, anche se tra essi vi fossero dei veri poltroni, che
non amavano affatto le stragi. Se vi era qualche valente generale che metteva
in rotta i nemici, si trovava qualche persona che, corrotta con dei regali,
favoriva la loro ritirata. Vi erano pure dei guerrieri che affrontavano il
pericolo comparendo sempre nei punti piú esposti. Prima perdevano una gamba,
quindi un braccio, infine, quando tutte queste mutilazioni li avevano resi non
piú in grado di servire, li si congedava vergognosamente a mezza paga; mentre
altri, che piú prudentemente non andavano mai all’attacco, ricavavano la doppia
paga, per restare tranquillamente tra di loro.
I loro re erano, sotto ogni
riguardo, mal serviti. I loro ministri
li ingannavano. Ve n’erano invero parecchi che non tralasciavano nulla
per far progredire gl’interessi della corona; ma contemporaneamente essi
saccheggiavano impunemente il tesoro che s’industriavano ad arricchire. Essi
avevano il felice talento di spendere abbondantemente, nonostante che i loro
stipendi fossero molto meschini; e per giunta si vantavano di essere molto
modesti. Si esagerava forse nel considerare le loro prerogative quando le si
denominava le loro “malversazioni”? E anche se ci si lamentava che non si
comprendeva il loro gergo, essi si servivano del termine di “emolumenti”, senza
mai voler parlare naturalmente e senza camuffamenti dei loro guadagni. Infatti
non vi fu mai un’ape che sia stata effettivamente soddisfatta nel desiderio di
apprendere, non dico quello che guadagnavano effettivamente questi ministri, ma
neppure ciò che essi lasciavano scorgere dei loro guadagni. Essi assomigliavano
ai nostri giocatori, i quali, per quanto siano stati fortunati al gioco, non
diranno tuttavia mai in presenza dei perdenti tutto quello che hanno
guadagnato.
Chi potrebbe descrivere
dettagliatamente tutte le frodi che si commettevano in questo alveare? Colui
che acquistava del letame per ingrassare il suo prato, lo trovava falsificato
per un quarto con pietre e cemento inutili; e per giunta qualsiasi poveretto
non avrebbe avuto la facilità di brontolare di ciò, perché a sua volta
imbrogliava mescolando al suo burro una metà di sale.
La giustizia stessa, per quanto
tanto rinomata per la sua fortuna di essere cieca, non era per questo meno
sensibile al brillante splendore dell’oro. Corrotta dai doni, essa aveva
sovente fatto pendere la bilancia che teneva nella sua mano sinistra.
Imparziale in apparenza, quando si trattava d’infliggere delle pene corporali,
di punire degli omicidi o degli altri gravi crimini, essa aveva bens’ spesso
condannato al supplizio persone che avevano continuato le loro ribalderie dopo
esser state punite con la gogna. Tuttavia si riteneva comunemente che la spada
che essa portava non colpiva se non le api che erano povere e senza risorse; e
che anche questa dea faceva appendere all’albero maledetto delle persone che,
oppresse dalla fatale necessità, avevano commesso dei crimini che non
peritavano affatto un tale trattamento. Con questa ingiusta severità, si
cercava di mettere al sicuro il potente e il ricco.
Essendo cosí ogni ceto pieno di
vizi, tuttavia la nazione di per sé godeva di una felice prosperità. era
adulata in pace, temuta in guerra. Stimata presso gli stranieri, essa aveva in
mano l’equilibrio di tutti gli altri alveari. Tutti i suoi membri a gara
prodigavano le loro vite e i loro beni per la sua conservazione. Tale era lo
stato fiorente di questo popolo. I vizi dei privati contribuivano alla
felicità pubblica. Da quando la virtú, istruita dalle malizie politiche,
aveva appreso i mille felici raggiri dell’astuzia, e da quando si era legata di
amicizia col vizio, anche i piú scellerati facevano qualcosa per il bene
comune.
Le furberie dello stato
conservavano la totalità, per quanto ogni cittadino se ne lamentasse. L’armonia
in un concerto risulta da una combinazione di suoni che sono direttamente opposti.
Cosí i membri di quella società, seguendo delle strade assolutamente contrarie,
si aiutavano quasi loro malgrado. La temperanza e la sobrietà degli uni
facilitava l’ubriachezza e la ghiottoneria degli altri. L’avarizia, questa
funesta radice di tutti i mali, questo vizio snaturato e diabolico, era schiava
del nobile difetto della prodigalità. Il lusso fastoso occupava milioni di
poveri. La vanità, questa passione tanto destata, dava occupazione a un numero
ancor maggiore. La stessa invidia e l’amor proprio, ministri dell’industria,
facevano fiorire le arti e il commercio. Le stravaganze nel mangiare e nella
diversità dei cibi, la sontuosità nel vestiario e nel mobilio, malgrado il loro
ridicolo, costituivano la parte migliore del commercio.
Sempre incostante, questo popolo
cambiava le leggi come le mode. I regolamenti che erano stati saggiamente
stabiliti venivano annullati e si sostituivano ad essi degli altri del tutto
opposti. Tuttavia con l’alterare anche le loro antiche leggi e col correggerle,
le api prevenivano degli errori che nessuna accortezza avrebbe potuto
prevedere.
In tal modo, poiché il vizio
produceva l’astuzia, e l’astuzia si prodigava nell’industria, si vide a poco a
poco l’alveare abbondare di tutte le comodità della vita. I piaceri reali, le
dolcezze della vita, la comodità e il riposo erano divenuti dei beni cosí
comuni che i poveri stessi vivevano allora piú piacevolmente di quanto non
vivessero prima. Non si sarebbe potuto aggiungere nulla al benessere di questa
società.
Ma, ahimè, qual è mai la vanità
della felicità dei poveri mortali! Non appena queste api avevano gustato le
primizie del benessere, tosto mostrarono che è persino al di là del potere
degli dèi il rendere perfetto il soggiorno terrestre. Il gruppo mormorante
aveva spesso affermato di esser soddisfatto del governo e dei ministri; ma al
piú piccolo dissesto cambiò idea. Come se fosse perduto senza scampo, maledí le
politiche, gli eserciti e le flotte. Queste api riunirono le loro lagnanze,
diffondendo ovunque queste parole: “siano maledette tutte le furberie che
regnano presso di noi!”. Tuttavia ciascuna se le permetteva ancora; ma ciascuna
aveva la crudeltà di non volerne concedere l’uso agli altri.
Un personaggio che aveva
ammassato immense ricchezze, ingannando il suo padrone, il re e i poveri, osò
gridare a tutta forza: “il paese non può mancare di perire a causa di tutte le
sue ingiustizie!”. E chi pensate che sia stato queste severo predicatore? Era
un guantaio, che aveva venduto per tutta la sua vita, e che vendeva anche
allora, delle pelli d’agnello per pelli di capretto. Non faceva la minima cosa
in questa società che contribuisse al bene pubblico. Tuttavia ogni furfante
gridò con impudenza: “buon Dio, dateci soltanto la probità!”.
Mercurio (il dio dei ladroni) non
poté trattenersi dal ridere nell’ascoltare una preghiera cos’ sfrontata. Gli
altri dèi dissero che era stupidità il biasimare ciò che si amava. Ma Giove,
indignato per queste preghiere, giurò infine che questo gruppo strillante
sarebbe stato liberato dalla frode di cui essa si lamentava.
Egli disse: “Da questo istante
l’onestà s’impadronirà di tutti i loro cuori. Simile all’albero della scienza,
essa aprirà gli occhi di ciascuno e gli farà percepire quei crimini che non si
possono contemplare senza vergogna. Essi si sono riconosciuti colpevoli coi
loro discorsi, e soprattutto col rossore suscitato sui loro volti dall’enormità
dei loro crimini. È cosí che i bambini che vogliono nascondere le loro colpe,
traditi dal loro colorito, immaginano che quando li si guarda, si legga sul
loro volto malsicuro, la cattiva azione che hanno compiuto”.
Ma, per Dio, quale costernazione!
quale improvviso cambiamento! In meno di un’ora il prezzo delle derrate diminuí
ovunque. Ciascuno, dal primo ministro sino ai contadini, si strappò la maschera
d’ipocrisia che lo ricopriva. Alcuni,
che erano ben conosciuti già da prima, apparivano degli stranieri, quand’ebbero
ripreso le loro maniera naturali.
Da questo momento il tribunale fu
spopolato. I debitori saldavano di propria iniziativa i loro debiti, senza
eccettuare neppure quelli che i loro creditori avevano dimenticato. Si
condonava generosamente a coloro che non erano in grado di soddisfarli. Se
sorgeva qualche difficoltà, quelli che avevano torto rimanevano cautamente in
silenzio. Non si videro piú processi in cui entrassero la malvagità e la
vessazione. Nessuno poteva piú accumulare ricchezze. La virtú e l’onestà
regnavano nell’alveare. Che cosa potevano fare allora gli avvocati? Anche
coloro che prima della rivoluzione non avevano avuto la fortuna di guadagnare
molto, disperati, abbandonavano la loro scrivania e si ritiravano.
La giustizia, che sino ad allora
si era occupata di far impiccare alcune persone, concedeva la libertà a quelle
che teneva prigioniere. Ma, dopo che le prigioni furono vuotate, diventando
inutile la dea che ad esse presiedeva, costei si vide costretta a compiere una
ritirata, con tutta la sua corte e il suo seguito rumoreggiante. Tra esso si
videro i fabbri, addetti alle serrature, ai catenacci, alle inferriate, alle
catene e alle porte munite di sbarre di ferro. Poi si videro i carcerieri, i
secondini e i loro aiutanti. Venne poi la dea preceduta dal suo fedele ministro
scudiero, il carnefice, grande esecutore delle sue sentenze severe. Essa non
era armata della sua spada immaginaria, bensí in sua vece portava l’ascia e la
corda. La signora giustizia, con gli occhi bendati, seduta su di una nuvola, fu
cosí cacciata nell’aria accompagnata dalla sua corte. Attorno al suo seggio e
dietro di esso vi erano i sergenti, gli uscieri e i domestici di tale specie,
che si nutrivano delle lagrime degli sfortunati.
L’alveare aveva ancora dei
medici, cosí come prima della rivoluzione. Ma la medicina, quest’arte salutare,
non era piú affidata se non a uomini abili. Essi erano cosí numerosi e cosí
diffusi nell’alveare, che nessuno di essi aveva bisogno di una vettura. Le loro
vane dispute erano cessate. Il compito di guarire prontamente i pazienti era
quello che unicamente le occupava. Pieni di disprezzo per le medicine importate
da paesi stranieri, essi si limitavano alle semplici medicine prodotte nel loro
paese. Convinti che gli dèi non mandavano alcuna malattia alle nazioni senza
donar loro, nello stesso tempo, i veri rimedi, si dedicavano a scoprire le
proprietà delle piante che crescevano presso di loro.
I ricchi ecclesiastici, destati
dalla loro vergognosa pigrizia, non facevano piú servire le loro chiese da api
prese alla giornata; officiavano essi stessi. La probità da cui erano animati
li spingeva a offrire preghiere e sacrifici. Tutti coloro che non si sentivano
capaci di adempiere questi doveri, o che ritenevano che si potesse fare a meno
dei loro servizi, si dimettevano senza indugio dalle loro cariche. Non vi erano
occupazioni sufficienti per tante persone, se pur ne restava ancora qualcuna:
giacché il loro numero diminuiva intensamente. Erano tutti modestamente
sottomessi al pontefice, il quale si occupava esclusivamente degli affari
religiosi, abbandonando agli altri gli affari dello stato. Il reverendo capo,
divenuto caritatevole, non aveva piú la durezza di cuore di cacciare dalla sua
porta i poveri affamati. Mai si sentiva dire ch’egli prelevasse qualcosa dal
salario del povero. Era invece presso di lui che l’affamato trovava cibo, il
mercenario il suo pane, l’operaio bisognoso la sua tavola e il suo letto.
Il cambiamento non fu meno
considerevole fra i primi ministri del re e fra tutti gli ufficiali subalterni.
Divenuti economi e temperanti, i loro stipendi bastavano loro per vivere. Se
un’ape povera era venuta dieci volte per richiedere il giusto pagamento di una
piccola somma, e qualche funzionario ben pagato l’aveva obbligata o a
regalargli uno scudo o a non ricevere mai il suo pagamento, prima si era
denominata una tale alternativa la “malversazione” del funzionario; ma ora la
si chiamava, col giusto nome, una ribalderia manifesta.
Una sola persona era sufficiente
per adempiere le funzioni per le quali si richiedevano tre persone prima del
felice cambiamento. Non v’era piú bisogno di affiancare un collega per sorvegliare
le azioni di coloro a cui si affidava il mantenimento degli affari. I
magistrati non si lasciavano piú corrompere e non cercavano piú di facilitare i
ladrocini degli altri. Una sola persona compiva allora mille volte piú lavoro
di quanto non ne facessero prima parecchie persone.
Non era piú cosa onorevole il far
figura alle spese dei propri creditori. Le livree restavano appese nelle
botteghe dei rigattieri. Quelli che brillavano per la magnificenza delle loro
carrozze, le vendevano a poco prezzo. I nobili si liberavano di tutti i loro
superbi cavalli tanto sontuosi e persino delle loro campagne, per pagare i loro
debiti.
Si evitavano le spese inutili con
la stessa cura con cui si evitava la frode. Non si mantenevano piú degli
eserciti all’estero. Non curandosi piú della stima degli stranieri e della
gloria frivola che si acquista con le armi, non si combatteva se non per
difendere la propria patria contro coloro che attendevano ai suoi diritti e
alla sua libertà.
Gettate ora lo sguardo sul glorioso
alveare. Contemplate l’accordo mirabile che regna tra il commercio e la buona
fede. Le oscurità che offuscavano questo spettacolo sono scomparse: tutto si
vede allo scoperto. Quanto le cose hanno mutato il loro volto!
Coloro che facevano delle spese
eccessive e tutti coloro che vivevano su questo lusso; sono stati costretti a
ritirarsi. Invano tenteranno nuove occupazioni: esse non potranno fornir loro
il necessario.
Il prezzo dei poderi e degli
edifici crollò. I palazzi incantevoli, i cui muri, simili alle mura di Tebe,
erano stati elevati con armonia musicale, divennero deserti. I potenti, che
prima avrebbero preferito perdere la loro vita piuttosto che veder cancellare i
loro titoli fastosi scolpiti sui loro portici superbi, schernivano ora queste
vane iscrizioni. L’architettura, quest’arte meravigliosa, fu del tutto
abbandonata. Gli artigiani non trovavano piú nessuno che li volesse impiegare.
I pittori non diventavano piú celebri con le loro pitture. La scultura,
l’incisione, il cesello e la statuaria non furono piú rinomate nell’alveare.
Le poche api che vi restarono,
vivevano miseramente. Non ci si preoccupava piú di come spendere il proprio
denaro, ma di come guadagnarne per vivere. Quando dovevano pagare il loro conto
alla taverna, decidevano di non rimetterci piú piede. Non si vedevano piú le
donne da bettola guadagnare tanto da poter indossare abiti drappeggiati d’oro.
Torcicollo non donava piú delle grosse somme per avere del borgogna e degli
uccelletti. I cortigiani, che si compiacevano di regalare a Natale alla loro
amante degli smeraldi, spendendo in due ore tanto quanto una compagnia di
cavalleria avrebbe speso in due giorni, fecero bagaglio e si ritirarono da un
paese cosí miserevole.
La superba Cloe, le cui grandi
pretese avevano un tempo costretto il suo marito troppo condiscendente a
saccheggiare lo stato, ora vende il suo abbigliamento, composto dei piú ricchi
bottini delle Indie. Ora sopprime le sue spese e porta tutto l’anno lo stesso
abito. L’età spensierata e mutevole è passata. Le mode non si susseguono piú
con quella bizzarra incoscienza. Dal canto loro, tutti gli operai che
lavoravano le ricche stoffe di seta e d’argento e tutti gli artigiani che
dipendevano da loro, si ritirarono. Una pace profonda domina in questo regno; e
ha come sua conseguenza l’abbondanza. Tutte le fabbriche che restano producono
soltanto le stoffe piú semplici; tuttavia esse sono tutte molto care. La natura
prodiga, non essendo piú costretta dall’infaticabile giardiniere, produce bensí
i suoi frutti nelle sue stagioni; però non produce piú né rarità, né frutti
precoci.
A misura che diminuivano la
vanità e il lusso, si videro gli antichi abitanti abbandonare la loro dimora.
Non erano piú né i mercanti né le compagnie che facevano decadere le
manifatture, erano la semplicità e la moderazione di tutte le api. Tutti i
mestieri e tutte le arti erano abbandonati. La facile contentatura, questa
peste dell’industria, fa loro ammirare la loro grossolana abbondanza. Essi non
ricercarono piú la novità, non hanno piú alcuna ambizione.
E cosí, essendo l’alveare
pressoché deserto, le api non si potevano difendere contro gli attacchi dei
loro nemici, cento volte piú numerosi. Esse difendevano tuttavia con tutto il
valore possibile, finché qualcuna di loro avesse trovato un rifugio ben
fortificato.
Non v’era alcun traditore presso
di loro. Tutte combattevano validamente per la causa comune. Il loro coraggio e
la loro integrità furono infine coronate dalla vittoria.
Ma questo trionfo costò loro
tuttavia molto. Parecchie migliaia di queste valorose api perirono. Il resto
dello sciame, che si era indurito nella fatica e nel lavoro, credette che
l’agio e il riposo, che mettono a sí dura prova la temperanza, fossero un
vizio. Volendo dunque garantirsi una volta per sempre da ogni ricaduta, tutte
queste api si rifugiarono nel cupo cavo di un albero, dove a loro non resta
altro, della loro antica felicità, che la contentatura dell’onestà.
MORALE
Abbandonate dunque le vostre
lamentele, o mortali insensati! Invano cercate di accoppiare la grandezza di
una nazione con la probità. Non vi sono che dei folli, che possono illudersi di
gioire dei piaceri e delle comodità della terra, di esser famosi in guerra, di
vivere bene a loro agio, e nello stesso tempo di essere virtuosi. Abbandonate
queste vane chimere! Occorre che esistano la frode, il lusso e la vanità, se
noi vogliamo fruirne i frutti. La fame è senza dubbio un terribile
inconveniente. Ma come si potrebbe senza di essa fare la digestione, da cui
dipendono la nostra nutrizione e la nostra crescita? Non dobbiamo forse il
vino, questo liquore eccellente, a una pianta il cui legno è magro, brutto e
tortuoso? Finché i suoi pampini sono lasciati abbandonati sulla pianta, si
soffocano l’uno con l’altro, e diventano dei tralci inutili. Ma se invece i
suoi rami sono tagliati, tosto essi, divenuti fecondi, fanno parte dei frutti
piú eccellenti.
È cosí che si scopre vantaggioso
il vizio, quando la giustizia lo epura, eliminandone l’eccesso e la feccia.
Anzi, il vizio è tanto necessario in uno stato fiorente quanto la fame è
necessaria per obbligarci a mangiare. È impossibile che la virtú da sola renda
mai una nazione celebre e gloriosa. Per far rivivere la felice età dell’oro,
bisogna assolutamente, oltre all’onestà riprendere la ghianda che serviva di
nutrimento ai nostri progenitori.
Grande Antologia Filosofica, Marzorati, Milano, 1968, vol.
XIV, pagg. 137-146