Mannheim, Pianificazione per la libertà

Karl Mannheim (1893-1947), ungherese, si allontanò dal suo paese dopo il fallimento del tentativo rivoluzionario di Bela Kun. Sociologo con forte vocazione filosofica, favorevole ad una razionalità critica contro tutti i dogmatismi, egli sottolinea l’aspetto relazionale (non relativista) della conoscenza. In questa lettura Mannheim esprime l’opinione che si debba pianificare la società al fine di renderla piú libera, piú democratica, giusta, senza classi. Si deve evitare il pericolo del caos e quello dell’irregimentazione.

 

K. Mannheim, Libertà, potere e pianificazione democratica, Armando, Roma, 1976, pagg. 54-59

 

La pianificazione democratica

Se si accetta tutto il peso dell’argomentazione appena svolta, allora il problema politico e sociale della nostra epoca può essere formulato. Il nostro compito è di costruire un sistema sociale attraverso la pianificazione, una pianificazione, però, di un genere particolare: essa deve essere pianificazione per la libertà, soggetta al controllo democratico; pianificazione, ma non una pianificazione restrizionistica che favorisca monopoli di gruppo, o degli imprenditori oppure delle associazioni dei lavoratori, una “pianificazione per l’abbondanza” piuttosto, cioè pieno impiego e sfruttamento delle risorse; una pianificazione per la giustizia sociale, anziché una assoluta uguaglianza, con differenziazione delle ricompense e degli status sulla base della genuina eguaglianza piuttosto che del privilegio; pianificazione non per una società senza classi, ma per una società che abolisca gli estremi della ricchezza e della povertà; pianificazione per gli standards culturali senza “livellamento verso il basso” – una transizione pianificata che favorisca il progresso senza scartare ciò che vi è di prezioso nella tradizione; pianificazione che neutralizzi i pericoli di una società di massa attraverso la coordinazione dei mezzi del controllo sociale, ma che intervenga solo nei casi di deterioramento istituzionale o morale definiti da criteri collettivi; pianificazione per l’equilibrio tra centralizzazione e dispersione del potere; pianificazione per la graduale trasformazione della società, al fine di incoraggiare lo sviluppo della personalità: in breve, pianificazione, ma non irregimentazione.

È importante enumerare questi requisiti, anche se, al primo sguardo, ciò sembra essere una lista di “desiderata” che contiene qualcosa di paradossale. Secondo la nostra opinione queste idee appaiono tra loro incompatibili solo perché noi supponiamo valide le alternative esistenti. Noi prendiamo per cosa certa che non v’è pianificazione che non sia dittatoriale, poiché tanto la pianificazione fascista quanto quella comunista sono dittatoriali. Noi prendiamo per cosa certa che la libertà è il prezzo da pagare per la pianificazione, solo perché i pianificatori fascisti e comunisti cancellano tutte le opposizioni con la violenza e col terrore. Noi pensiamo che una società democratica sia destinata a diventare limitatrice e monopolistica perché noi identifichiamo inconsciamente la democrazia con l’ultima fase dell’oligarchia e del capitalismo monopolistico. Noi prendiamo per cosa certa che nel mondo morale non vi sia scelta tra il caos e la prigione perché nelle nostre società democratiche del laissez-faire tutti gli elementi di omogeneità morale vanno gradualmente scomparendo e finora non è stato trovato altro rimedio che l’imposizione di un modo di pensare comune, attraverso l’indottrinamento dittatoriale.

Sarebbe però miope fatalismo accettare la attuale disintegrazione e le risposte esistenti come finali e inevitabili. La nostra generazione mancherebbe di immaginazione se considerasse gli sviluppi casuali come inesorabili e permettesse alla prossima generazione di continuare a lottare per conservare tipi di società in se stessi insoddisfacenti. Non vale la pena di morire né per una finta democrazia che favorisce soltanto la limitazione e gli estremi di povertà e ricchezza plutocratica, né per una finta società pianificata nella quale ogni libertà umana svanisce per sempre. Tutto dipende quindi dalla nostra immaginazione e dal nostro sforzo intellettuale. Noi non dobbiamo né accettare come irreversibile l’attuale deterioramento del nostro sistema democratico né abbracciare i primi casuali esperimenti di riorganizzazione in stati totalitari come l’unica direzione possibile. Anche in politica, lo status quo è istruttivo solo se il pensiero analitico sa enucleare: a) quali tratti caratteristici sono sorti dalle esigenze di cambiare la struttura di base della società; b) quali sono le risposte arbitrarie a una sfida a cui si può rispondere in qualche altra maniera.

 

Novecento filosofico e scientifico, a cura di A. Negri, Marzorati, Milano, 1991, vol. III, pagg. 845-847