Il
progresso tecnico è arrivato al punto di soddisfare i bisogni, ma ha realizzato
un tipo di società dove viene repressa la libertà e negato ciò che è piú
specificamente umano. Intanto la produttività è diventata fine a se stessa.
H. Marcuse, Psicanalisi e politica
Il progresso tecnico [...] sembra essere la condizione preliminare di ogni progresso umanitario. L’ascesa dell’umanità dalla schiavitú e dalla povertà a una libertà sempre maggiore presuppone il progresso tecnico, cioè un alto grado di dominio sulla natura; infatti soltanto questo dominio può produrre la ricchezza sociale, per mezzo della quale i bisogni umani possono ottenere forma e soddisfazione piú umane. D’altra parte, tuttavia, le cose non stanno affatto nel senso che il progresso tecnico porti automaticamente con sé il progresso umanitario [...] Il progresso tecnico, che, in quanto tale, è certamente la condizione preliminare della libertà, non significa affatto automaticamente la realizzazione di una maggiore libertà. Basta pensare a uno Stato del benessere di tipo totalitario – idea che già da lungo tempo non è piú cosí astratta o speculativa – per renderci conto che, in uno Stato di questo tipo, i bisogni umani vengono sí, piú o meno, soddisfatti, però in una maniera tale che gli uomini, nella loro vita privata e in quella sociale, dalla culla alla tomba, sono oggetti di amministrazione. Ammesso che in questo caso si possa ancora parlare in generale di felicità, si dovrà parlare di felicità amministrata [...].
I tratti decisivi (del progresso) potrebbero essere caratterizzati nel modo seguente: il valore supremo è la produttività, non soltanto nel senso di una accresciuta produzione di beni materiali e spirituali, bensí anche nel senso di un dominio universale sulla natura. Sorge allora la domanda: produttività per che cosa? La risposta che viene sempre data è, certo, plausibile: ovviamente, per la soddisfazione dei bisogni. La produttività servirebbe a una migliore e piú ampia soddisfazione dei bisogni; sarebbe, in ultima analisi, produttività in quanto produzione di valori d’uso che devono tornare a vantaggio degli uomini. Quando però il concetto di bisogno include tanto il nutrimento, il vestire e l’alloggio quanto le bombe, le macchine da divertimento e la distruzione di generi alimentari invendibili, allora possiamo affermare senza pericolo che il concetto è tanto disonesto quanto inadatto alla definizione di una produttività legittima; e abbiamo allora il diritto di lasciare aperta la questione: produttività per che cosa? Sembra che la produttività diventi sempre piú fine a se stessa e che il quesito circa l’uso della produttività non solo rimanga aperto, ma anche venga sempre piú rimosso.
F. Tonon, Auguste Comte e il problema
storico-politico nel pensiero contemporaneo, G. D’Anna, Messina-Firenze,
19842, pagg. 282-283