Piero
Martinetti, fra il 1924 e il 1927, tenne all'Università di Milano una serie di
lezioni su Kant; dal volume che raccoglie quelle lezioni sono tratte le
considerazioni che seguono. Martinetti avanza una interpretazione “idealistica”
del concetto di noumeno: esso non può avere una funzione esclusivamente
“negativa” e di “limite”; in qualche modo il noumeno esprime un
contenuto positivo, una forma di realtà che trascende - è vero - la nostra facoltà
di conoscere, ma che apre anche alla ragione una possibilità di agire, di avere
un “oggetto” suo che è seppure ignoto è evoca l'esistenza di un “mondo perduto”
verso cui dirigerci.
P.
Martinetti, Kant, parte I, cap. IV; parte II, Introduzione
Non si
può dire che il concetto del noumeno sia puramente negativo: una pura
negazione sarebbe l'ignorare questo concetto e il porre, esplicitamente o non,
il mondo fenomenico come solo esistente. Non è dunque una pura negazione l'atto
per cui apprendiamo; non è un atto che elimini da sé ogni traccia d'una qualche
affermazione positiva: è un atto che negando il carattere assoluto della realtà
sensibile pone qualche cosa d'altro, il noumeno. La forma negativa
dell'espressione cela un contenuto positivo.
[...]
La morale
di Kant è innanzitutto una metafisica della morale, cioè un capitolo di
metafisica; e, solo in via secondaria, è una morale.
Laddove,
per esempio, Spinoza parte dalla considerazione del nostro conoscere in genere
e dalle sue esigenze per elevarsi al concetto (simbolico) della sostanza e da
questo punto di vista ricostruire poi dinanzi ai nostri occhi il mondo, Kant
respinge (se a torto o a ragione non dobbiamo qui decidere) ogni possibilità di
questo genere: il conoscere in genere non porta ad alcun risultato oggettivo,
in riguardo alla realtà assoluta, e perciò non potrebbe da sé solo condurci al
di là di una sterile negazione [della possibilità della ragione di conoscere
alcunché e quindi di legiferare in campo morale].
Noi ci
troveremmo, secondo Kant, se fossimo abbandonati alla sola nostra conoscenza
generica del mondo, come anime immerse in una tenebra impenetrabile e dotate
della reminiscenza di un perduto mondo della luce: ma cosí vaga che non
condurrebbe ad altro risultato se non alla coscienza che esse non appartengono
e non sono nate per questa realtà tenebrosa.
Secondo
la metafisica invece, anche questa sola reminiscenza basta all'anima per
ricostruirsi almeno in modo approssimativo una pallida immagine del mondo
perduto che le serve per dirigersi e fare ad esso ritorno.
Ma,
secondo Kant, noi non siamo limitati alla conoscenza della realtà esteriore,
che è per Kant la conoscenza in genere, oggetto delle scienze e della
metafisica (nel senso che egli dà a queste parole); noi abbiamo, in mezzo a queste
tenebre, un punto luminoso: un punto solo, ma che ci basta per dirigerci e per
ricostruirci anche il mondo in cui viviamo, cosí almeno come è necessario per
dirigerci. Questo punto luminoso è la conoscenza del nostro essere come
operante moralmente. Qui, e qui soltanto, discende un raggio della realtà
divina: questo è il punto che dobbiamo chiarire a noi medesimi come il solo e
vero sapere che abbiamo della realtà assoluta: non tanto per conoscere alla
luce sua il mondo (perché ciò non sarebbe una estensione del conoscere), quanto
per poterci guidare nella vita in modo da elevarci verso questa realtà divina
nella misura in cui a noi è possibile qui, nella nostra condizione presente.
La
morale di Kant è quindi la sua vera metafisica.
La
metafisica di Kant, potremmo dire, è divisa in due parti. La prima ci mostra
che tutta la realtà data alla nostra conoscenza non è la vera realtà: ma non va
oltre al punto limite di questa negazione. La seconda ci mostra che la vera
realtà ci traluce in un punto solo, nella nostra attività morale: ed anche qui
ci è data non come conoscenza, ma come direzione; vale a dire (per servirci di
una immagine) come un vero punto, che non ha estensione alcuna la quale si
presti ad un conoscere oggettivo, ma che ci serve almeno per riconoscere la
realtà positiva di ciò che è al di là di quella negazione e per servircene come
orientamento.
(P.
Martinetti, Kant, Feltrinelli, Milano, 1974, pagg. 68-69, 113-114)