Marx parte
dalla critica agli economisti classici per arrivare a descrivere il fatto
centrale dell’economia politica, cioè il rapporto tra la divisione del lavoro e
la condizione di alienazione dell’operaio. La relazione fra l’operaio e
l’oggetto del suo lavoro è, per Marx, simile a quello fra l’uomo e Dio.
K. Marx, Manoscritti economico-filosofici
del 1844, Primo manoscritto
Quindi, ora noi dobbiamo comprendere la connessione essenziale che corre tra la proprietà privata, l’avidità di denaro, la separazione tra lavoro, capitale e proprietà fondiaria, tra scambio e concorrenza, tra valorizzazione e svalorizzazione dell’uomo, tra monopolio e concorrenza, ecc., la connessione di tutto questo processo di estraniazione col sistema monetario.
Non trasferiamoci, come fa l’economista quando vuol dare una spiegazione, in uno stato originario fantastico. Un tale stato originario non spiega nulla. Non fa che rinviare il problema in una lontananza grigia e nebulosa. Presuppone in forma di fatto, di accadimento, ciò che deve dedurre, cioè il rapporto necessario tra due fatti, per esempio tra la divisione del lavoro e lo scambio. Allo stesso modo la teologia spiega l’origine del male col peccato originale, cioè presuppone come un fatto, in forma storica, ciò che deve spiegare.
Noi partiamo da un fatto dell’economia politica, da un fatto presente.
L’operaio diventa tanto piú povero quanto maggiore è la ricchezza che produce, quanto piú la sua produzione cresce di potenza e di estensione. L’operaio diventa una merce tanto piú vile quanto piú grande è la quantità di merce che produce. La svalorizzazione del mondo umano cresce in rapporto diretto con la valorizzazione del mondo delle cose. Il lavoro non produce soltanto merci; produce se stesso e l’operaio come una merce, e proprio nella stessa proporzione in cui produce in generale le merci.
Questo fatto non esprime altro che questo: l’oggetto che il lavoro produce, il prodotto del lavoro, si contrappone ad esso come un essere estraneo, come una potenza indipendente da colui che lo produce. Il prodotto del lavoro è il lavoro che si è fissato in un oggetto, è diventato una cosa, è l’oggettivazione del denaro. La realizzazione del lavoro è la sua oggettivazione. Questa realizzazione del lavoro appare nello stadio dell’economia privata come un annullamento dell’operaio, l’oggettivazione appare come perdita e asservimento dell’oggetto, l’appropriazione come estraniazione, come alienazione.
[...]
Tutte queste conseguenze sono implicite nella determinazione che l’operaio si viene a trovare rispetto al prodotto del suo lavoro come rispetto ad un oggetto estraneo. Infatti, partendo da questo presupposto è chiaro che: quanto piú l’operaio si consuma nel lavoro, tanto piú potente diventa il mondo estraneo, oggettivo, che egli si crea dinanzi, tanto piú povero diventa egli stesso, e tanto meno il suo mondo interno gli appartiene. Lo stesso accade nella religione. Quante piú cose l’uomo trasferisce in Dio, tanto meno egli ne ritiene in se stesso. L’operaio ripone la sua vita nell’oggetto; ma d’ora in poi la sua vita non appartiene piú a lui, ma all’oggetto. Quanto piú grande è dunque questa attività, tanto piú l’operaio è privo di oggetto. Quello che è il prodotto del suo lavoro, non è egli stesso. Quanto piú grande è dunque questo prodotto, tanto piú piccolo è egli stesso. L’alienazione dell’operaio nel suo prodotto significa non solo che il suo lavoro diventa un oggetto, qualcosa che esiste all’esterno, ma che esso esiste fuori di lui, indipendente da lui, a lui estraneo, e diventa di fronte a lui una potenza per se stante; significa che la vita che egli ha dato all’oggetto, gli si contrappone ostile ed estranea.
K. Marx, Manoscritti economico-filosofici
del 1844, Einaudi, Torino, 1968, pagg. 70-71 e 72