Montaigne, Debolezza e presunzione

In questa pagina Montaigne affronta temi che ispireranno alcuni tra i piú famosi pensieri di Pascal sui limiti del’uomo e sulla sua (infondata) presunzione.

 

M. E. de Montaigne, Saggi, II, cap. XII

 

Il metodo che io prendo per demolire questa frenesia, e che mi sembra il piú adatto, è quello di colpire alla base l'orgoglio e la presunzione umana; quello di far sentire all'uomo la sua inanità, vanità, nullità; di strappargli del tutto le deboli armi della ragione; quello di costringerlo a chinare la testa e a mordere la polvere sotto l'autorità e la riverenza alla divina maestà. La scienza, infatti, appartiene soltanto ad essa; essa sola ha valore per se stessa e ad essa noi dobbiamo quel poco che pensiamo di contare e secondo la quale ci valutiamo. “Dio vuole che nessun altro, all'infuori di lui, si consideri grande” (Erodoto, Storie, VII, X). Abbattiamo questa opinione, primo fondamento della tirannide dello spirito maligno: “Dio resiste ai superbi e concede la grazia agli umili” (san Pietro, Lettere, I, V, 5). L'intelligenza si trova in tutti gli dèi, dice Platone, ma in pochissimi uomini.

Ora, è di grande conforto ai Cristiani il vedere i propri strumenti mortali e caduchi, cosí convenientemente adatti alla nostra santa e divina fede, che, quando sono usati, a proposito della loro natura mortale e caduca, essi non vi risultano piú appropriati e non abbiano capacità superiori. Vediamo, dunque, se l'uomo ha in suo potere ragioni piú consistenti di quelle di Raimondo di Sabunda; cioè, se è in suo potere di pervenire ad una certezza attraverso il ragionamento ed il discorso. Sant'Agostino infatti, scagliandosi contro costoro, ha occasione di rimproverare questa ingiustizia: che essi si fanno sostenitori di una falsa credenza, che la nostra ragione non ha potere di fondare e, per mostrar loro che poterono e possono tuttora esservi delle cose, di cui il nostro pensiero non saprebbe trovare la natura e le cause, mette loro innanzi certe esperienze, indubbie e riconosciute, rispetto alle quali manca all'uomo qualsiasi nozione.

Ma occorre fare di piú e insegnare loro che, per dimostrare la debolezza della ragione umana, non occorre andare a scegliere esempi rari. Essa è cosí manchevole e cieca che non vi è nulla di cosí chiaro e facile per essa; che non vi è differenza alcuna tra il facile ed il difficile; e che tutte le cose, allo stesso modo, e la natura in generale, si ribellano alla sua giurisdizione ed al suo intervento.

Che cosa ci conferma la verità quando c'insegna a fuggire la filosofia mondana, quando ci fa persuasi che la nostra saggezza non è che follia nei confronti di Dio; che l'uomo è la piú vana di tutte le vanità, che l'uomo che tiene in gran conto il proprio sapere, non sa ancora neanche che cosa sia il sapere; e che l'uomo, che è un nulla, quando pensa di essere qualcosa, illude se stesso e s'inganna da solo? Queste sentenze, dettate dalla divina ispirazione, esprimono in modo cosí chiaro e cosí vivace ciò che voglio sostenere, che non mi occorrerebbe alcun'altra prova contro coloro che si sottomettono ed obbediscono alla sua autorità. Ma costoro vogliono essere puniti a loro proprie spese e non sopportano che si combatta la loro ragione se non per mezzo della stessa ragione.

Dunque, consideriamo per ora l'uomo solo, senza aiuto esterno, provvisto solo delle sue armi, sprovvisto della grazia e della conoscenza divina, in cui consiste tutto il suo onore, la sua forza e la sostanza del suo essere. Vediamo quanto è solido questo suo bel bagaglio; mi faccia egli capire, con la forza del suo pensiero, su quali basi ha costruito questa cosí grande superiorità che egli pensa di avere sulle altre creature. Chi lo ha persuaso che questo meraviglioso movimento della volta celeste, la luce eterna di queste stelle, rotanti cosí grandiosamente sul suo corpo, i movimenti spaventosi di questo mare infinito, siano stabiliti e si continuino per tanti secoli per suo vantaggio ed in suo favore? È possibile immaginare nulla di piú ridicolo del fatto che questa miserabile e debole creatura, la quale non è neppure padrona di se stessa, esposta alle offese di ogni cosa, si dica padrona e sovrana dell'Universo, del quale non è in suo potere conoscere la minima parte e tantomeno di comandarla? E questo privilegio che egli si attribuisce e secondo il quale egli sarebbe il solo capace di riconoscere la bellezza e i capolavori di un cosí grande edificio, il solo che possa renderne grazie all'architetto, un simile privilegio chi glielo ha concesso? Ci faccia vedere le credenziali di questo bello e grande incarico. Sono state concesse solo in favore dei saggi? Esse, infatti, non riguardano molte persone. Gli sciocchi ed i malvagi sono degni di un favore cosí straordinario, ed essendo la peggior parte del mondo, possono esser preferiti a tutto il rimanente? [...]

La presunzione è la nostra malattia naturale e originaria. La piú disgraziata e la piú fragile di tutte le creature è l'uomo e, tuttavia, la piú orgogliosa. Si sente e si vede alloggiata qui, fra la melma e lo sterco del mondo, attaccata ed inchiodata alla peggiore, alla piú morta e corrotta parte dell'Universo, all'ultimo piano della casa, ma al piú lontano dalla volta celeste, con gli animali della peggior condizione, tuttavia s'immagina di porsi al di sopra della sfera lunare e di poter mettere il cielo sotto i suoi piedi. Per la vanità di questa stessa immaginazione, egli si eguaglia a Dio, si attribuisce le possibilità divine, attribuisce a se stesso ogni privilegio e si separa dalla massa delle creature, divide in gruppi gli animali suoi confratelli e compagni ed assegna loro, come gli pare, una parte di facoltà e di forze. Come può conoscere, con la sola forza della sua intelligenza, gli impulsi interni e segreti degli animali? Per mezzo di quale analogia tra quelli e noi, egli deduce la mancanza d'intelligenza che attribuisce loro? Quando gioco con la mia gatta, chissà se essa mi prende come suo passatempo, cosí come faccio io per essa? Platone, nella sua descrizione dell'età aurea sotto Saturno, annovera fra i principali vantaggi dell'uomo d'allora, la possibilità di comunicare con le bestie ed egli, indagando ed istruendosi su di esse, ne conosceva le vere qualità e le differenze di ciascuna, per cui egli acquistava perfetta conoscenza e capacità di trattamento cosicché poteva condurre la sua vita molto piú a lungo e piú felicemente di quanto noi sappiamo fare. Ci occorre una prova migliore per giudicare l'impudenza umana riguardo alle bestie? Questo grande scrittore fu del parere che, per lo piú, la forma fisica che la natura ha dato loro, riguardava solo la pratica degli auspici che se ne traeva al suo tempo. Questo difetto che impedisce il comunicare tra loro e noi, perché non è piuttosto nostro che loro? Si tratta d'indovinare chi è colpevole del fatto che non ci si comprende: infatti noi non comprendiamo le bestie piú di quanto loro capiscano noi; per questa stessa ragione esse ci possono stimare bestie, come noi stimiamo loro. Non c'è molto da meravigliarsi se non le capiamo; cosí non capiamo i Baschi ed i Trogloditi. Talvolta alcuni si sono vantati di capirle, come Apollonio Tianeo, Melampo e Tiresia ed altri. E poiché, come dicono i cosmografi, vi sono delle nazioni che accettano come loro re un cane, è necessario ammettere che essi sappiano dare una certa interpretazione alla sua voce ed ai suoi movimenti. Occorre notare le somiglianze che vi sono fra di noi. Noi abbiamo una mediocre conoscenza della loro sensibilità ed egualmente le bestie l'hanno della nostra quasi nella stessa misura poiché esse ci secondano, ci minacciano, ci cercano e noi facciamo con loro la medesima cosa. Per di piú vediamo che tra di loro esse hanno una piena e completa comunicazione e che si capiscono: non soltanto quelle della stessa specie, ma anche quelle di specie diverse. [...]

Un soffio di vento contrario, il gracchiare di uno stormo di corvi, il passo falso di un cavallo, il passaggio fortuito di un'aquila, un sogno, una voce, un segno, una brinata mattutina sono sufficienti a sconvolgere l'uomo ed a prostrarlo.

 

(Grande Antologia Filosofica, Marzorati, Milano, 1964, vol. VII, pagg. 179-181)