Montaigne, Il cristianesimo e le guerre di religione

Michel Eyquem de Montaigne (1533-1592) sembra riproporre la tipica questione medievale del rapporto tra fede e ragione, strumenti per la conoscenza di Dio; in realtà egli mette in evidenza i limiti della ragione (i mezzi umani non sono capaci da soli di impadronirsi delle verità della religione), ma contemporaneamente dubita della stessa capacità o volontà di Dio di intervenire illuminando la mente degli uomini (“se questo raggio della divinità ci toccasse in qualche modo, esso dovrebbe manifestarsi dappertutto ...”). La realtà delle guerre di religione mette inequivocabilmente in luce come gli uomini seguano nelle loro azioni soltanto interessi particolari e come facciano un uso strumentale della religione.

 

M. E. de Montaigne, Saggi, II, cap. XII

 

Tuttavia, il mio pensiero è questo: che ad una cosa cosí divina e cosí solenne, che a tal segno oltrepassa l'intelletto umano, come è il caso di questa Verità, con la quale il buon Dio si è compiaciuto di illuminarci, è necessario che egli non ci lasci mancare il suo aiuto, una particolare e straordinaria benevolenza, perché noi possiamo impadronircene e farla nostra e non credo che i mezzi umani ne siano da soli capaci; e, che, se essi lo fossero, gli uomini eccezionali ed eccellenti, cosí numerosi, e cosí abbondantemente forniti di forze naturali degli antichi secoli, non avrebbero mancato di giungere colle loro argomentazioni a questa conoscenza. Soltanto per mezzo della fede possiamo abbracciare in modo vivo e con certezza gli alti misteri della nostra religione. Ma questo non significa che non sia un disegno sublime e degno di lode quello di rivolgere al servizio della nostra fede gli strumenti naturali ed umani che Dio ci ha dato. Non si può dubitare che non sia questo l'uso piú degno che noi sapremmo farne, e che non vi è occupazione o disegno piú conveniente al cristiano, di quello di dirigere interamente i suoi studi e pensieri ad abbellire, estendere ed ampliare la Verità della sua religione. E come non ci accontentiamo di servire Dio con l'anima e con lo spirito: ma gli dobbiamo, e gli rendiamo anche una riverenza fisica, applicando le nostre membra, i movimenti e le cose alla sua glorificazione; lo stesso occorre fare con la ragione, colla quale dobbiamo accompagnare la nostra fede; ma sempre con questa riserva, di non arrivare a pensare che essa dipenda da noi, e tanto meno che i nostri sforzi e le nostre argomentazioni possano attingere una scienza cosí sovrannaturale e cosí divina.

Ma se essa non viene a noi attraverso una sovrannaturale infusione; se essa ci viene attraverso le parole, e per strumenti umani, essa allora non è in noi nella sua completa grandezza e splendore. E certo io temo che sia questa la sola via per la quale noi possiamo goderne. E se arrivassimo a Dio per mezzo di una fede viva, se arrivassimo a lui con mezzi divini e non con mezzi umani; se avessimo passo e consistenza divini, l'umana situazione non avrebbe la possibilità di intralciarli, siccome invece fa; la nostra cittadella non si arrenderebbe davanti ad assalti cosí deboli: l'amore della novità, la costrizione del principe, il successo di un partito, l'oscillazione sconsiderata e fortuita delle nostre opinioni, non avrebbero la forza di scuotere o di alterare la nostra religione; non la lasceremmo esposta a nuovi argomenti e convincimenti, e meno che mai a tutte le retoriche che mai vi sian state: ma ci opporremmo a questi colpi con sicurezza inflessibile ed assoluta: “Come una rupe possente respinge i flutti, ed infrange intorno le onde incalzanti con la sua mole” (Anonimo). Se questo raggio della divinità ci toccasse in qualche modo, esso dovrebbe manifestarsi dappertutto; non soltanto le nostre parole, ma anche i nostri atti ne porterebbero la lucida impronta. Tutto ciò che da noi proviene lo vedremmo illuminato di questa divina chiarezza. Dovremmo provar raccapriccio che esso sia fatto settario, quale che fosse la difficoltà inerente ad esso; che non si siano conformati ad esso il comportamento e la vita: un istituto cosí divino e celeste si riscontra nei cristiani soltanto a parole.

Volete la riprova di ciò? Paragonate con quelli di un maomettano o di un pagano, i nostri costumi; il paragone è sempre negativo per noi, mentre, per merito della nostra religione, noi dovremmo brillare ed eccellere, senza possibilità di confronto, cosí che si dovrebbe dire: sono giusti, caritatevoli, buoni? dunque sono cristiani. Gli altri aspetti sono comuni a tutte le religioni, la speranza, la fiducia, gli avvenimenti, le cerimonie, le penitenze, i martiri. La caratteristica della nostra Verità dovrebbe essere la nostra virtú; poiché essa è la caratteristica piú divina e piú difficile e il frutto piú degno della Verità. Ebbe, tuttavia, ragione il nostro buon san Luigi, quando il re tartaro che si era fatto cristiano intese venire a Lione a baciare i piedi al Papa e riconoscere la santità dei nostri costumi, di dissuaderlo immediatamente, temendo che avvenisse il contrario e che la nostra vita dissoluta non gli procurasse disgusto per una cosí santa fede. Per quanto avvenne il contrario a un tale che, essendo andato a Roma con la stessa intenzione e vedendovi la dissolutezza dei prelati e del popolo di un tempo, si rinsaldò nella nostra religione, considerando quanta forza e divinità essa doveva avere dal momento che manteneva dignità e splendore in mezzo ad una tal corruzione e sostenuta da mani cosí viziose.

Se avessimo una sola goccia di fede, muoveremmo le montagne, dice il testo sacro; le nostre azioni sarebbero allora piú che umane, essendo guidate ed accompagnate dalla divinità; avrebbero tratti di divinità come la nostra religione. “È facile stabilirsi nella bontà e nella giustizia, se si crede” (Quintiliano, XII, XI).

Alcuni danno a credere di credere, mentre non credono. Altri, e sono anche di piú, lo danno a credere a se stessi, senza saper comprendere che cosa significa credere.

Troviamo strano che, in mezzo alle guerre che opprimono il nostro stato al presente, vediamo gli avvenimenti andare a caso e moltiplicarsi all'infinito e senz'ordine. Il motivo è che non vi apportiamo niente se non l'interesse particolare. Alcuni partiti sostengono la giustizia: ma non lo fanno che per ornamento e dissimulazione; si protesta in nome suo, ma essa non è fatta propria, assimilata, sposata; sta in costoro come sulla bocca dell'avvocato, non come sentita ed amata. Dio concede il suo soccorso sovrannaturale alla fede e alla religione, non alle nostre passioni. Gli uomini producono quelle guerre e si servono della religione in vista in esse: mentre dovrebbe essere tutto il contrario.

Il fatto è che tiriamo la religione con le nostre mani, come se fosse cera, in tante fogge diverse, contrarie ad una figura cosí diritta e cosí ferma, quale dovrebbe essere. Quando mai si è potuto constatare ciò meglio che nella Francia dei nostri giorni? Vi è chi prende a sinistra, chi a destra, vi è chi dice nero, chi dice bianco; tutti sottomettono la religione alle loro imprese violente e ambiziose, si comportano con un progresso cosí costante nella sregolatezza e nell'ingiustizia, che portano a dubitare e rendono difficile il credere, poiché le opinioni riguardo a cose dalle quali dipende la nostra condotta e la legge di vita sono cosí diverse. È possibile veder derivare dalla stessa scuola o dalla stessa dottrina costumi piú simili, piú unitari?

Questa è l'orribile impudenza con la quale corrompiamo le ragioni divine; cosí, empiamente, l'abbiamo ripudiata e ripresa a seconda della nostra posizione in questi pubblici fortunali. Questa frase solenne: “se sia permesso al suddito ribellarsi e prendere le armi contro il proprio principe per la difesa della religione”; vi ricordate come essa era, l'anno scorso in senso affermativo, l'insegna di un partito; in senso negativo l'insegna del partito opposto? Fate caso da qual parte viene ora ripetuta e fatta valere; e se le armi facciano maggior strepito per questa o quella causa. E, poi, se bruciano coloro che dicono che bisogna sottomettere la Verità al giogo delle nostre necessità.

Confessiamo la verità: colui che scegliesse nella schiera sia pure legittima e moderata coloro che procedono mediante il solo zelo di entusiasmo religioso, e coloro che hanno per iscopo soltanto la protezione delle leggi del loro paese o di mantenersi al servizio del principe, costui non sarebbe in grado di metter insieme un'intera compagnia di soldati. Da cosa deriva che non vi sono ormai molti che abbiano mantenuto la stessa volontà e la stessa maturità in mezzo ai nostri sbandamenti pubblici e che non si vedano, invece, ora andare al passo, ora correre a briglia sciolta e persino turbare i pubblici affari, ora con la violenza e asprezza, ora con la freddezza, debolezza e inerzia, se non dal fatto che li muovono considerazioni particolari e casuali sulla cui diversità essi si atteggiano?

                In ciò io vedo con evidenza che noi intendiamo la religiosità soltanto come autorizzazione delle nostre passioni. Non vi è avversione cosí eccellente come la cristiana. Il nostro zelo religioso fa meraviglie quando si tratta di incoraggiare la nostra tendenza verso l'odio, la crudeltà, l'ambizione, l'avarizia, la denigrazione, la ribellione. Mentre, al contrario, verso la bontà, la benignità, la temperanza, se non dipende da un'indole eccezionalmente disposta, non h a piede né ala.

                La nostra religione ha come scopo di estirpare il vizio; essa, invece, lo protegge, lo nutre, lo incita. Non bisogna farsi beffe di Dio. Se credessimo in lui, non dico per fede autentica, ma semplicemente per adesione, cosí come crediamo una qualsiasi altra storia (sia detto a nostra vergogna), come crediamo ad un amico, l'ameremmo allora al di sopra di ogni cosa, per l'infinita bontà e bellezza che vedremmo in lui: o almeno egli godrebbe della stessa considerazione che godono per noi la ricchezza, i piaceri, la gloria e gli amici.

                Il migliore di noi non ha ritegno nell'oltraggiarlo come ha ritegno nell'oltraggiare il suo vicino, il proprio padre, il suo signore. È l'intelligenza quella che scambia l'uno per l'altro l'oggetto di un piacere vizioso, che ha da una parte, con una vita e gloria immortale che ha dall'altra? Vi rinunciamo soltanto perché lo sottovalutiamo; ma quale piacere ci attira ad oltraggiarlo, se non il piacere puro e semplice dell'offesa?

 

(Grande Antologia Filosofica, Marzorati, Milano, 1964, vol. VII, pagg. 166-169)