Montaigne, Sensi e conoscenza

Per Montaigne l'unica forma di conoscenza - secondo l'antica tradizione atomistica - è quella sensibile; ma la conoscenza sensibile, come dimostra l'esperienza, è soggettiva; la sola conclusione possibile è quella scettica: “Non si può stabilire nulla di certo”.

 

M. E. de Montaigne, Saggi, II, cap. XII

 

a) “I sensi sono l'inizio e la fine dell'umana conoscenza”

 

Questo proposito mi ha condotto alla considerazione dei sensi, nei quali risiede il grande fondamento e la controprova della nostra ignoranza. Tutto ciò che conosciamo, lo conosciamo, senza dubbio, per il potere conoscitivo; infatti, poiché il giudizio consegue all'azione di colui che giudica, è giusto che questa operazione egli la compia con i suoi mezzi e la sua volontà, non per costrizione esterna, come avverrebbe se noi conoscessimo le cose per la forza e secondo la legge dalla nostra essenza. Ora, ogni conoscenza comincia in noi con i sensi, essi sono i nostri maestri: “La via per la quale l'assenso penetra nel petto e nel cuore dell'uomo” (Lucrezio, De rerum natura, V, 103).

La scienza comincia con essi e si risolve in essi. Dopo tutto, noi non avremmo piú conoscenza di una pietra se non sapessimo che vi sono suoni, luci, sapori, misure, pesi, mollezza, durezza, asprezza, colori, levigatezza, larghezza, profondità. Ecco la fonte ed i princípi per la costruzione di tutta la nostra conoscenza. E, secondo alcuni, scienza non è nient'altro che ciò che noi sentiamo. Ciò che mi può spingere a contraddire i sensi, mi prende per la gola e non potrebbe farmi retrocedere ulteriormente. I sensi sono l'inizio e la fine dell'umana conoscenza: “Vedrete che la nozione del vero è venuta dapprima dai sensi e che i sensi non possono venir confutati. Che cosa è degno di maggior credito dei sensi?” (Lucrezio, De rerum natura, IV, 479-483). Anche ad attribuire loro il meno possibile, occorrerà sempre almeno conceder loro questo, che con loro e per mezzo del loro intervento s'inizia tutta quanta la nostra conoscenza. Cicerone diceva che Crisippo avendo tentato di demolire la forza dei sensi e della loro importanza, produsse degli argomenti esattamente contrari e delle obiezioni cosí forti che non vi poté soddisfare. Per cui Carneade, che sosteneva la dottrina contraria, si vantava di servirsi delle stesse armi e parole di Crisippo per confutarlo e avrebbe gridato per questo contro di lui: “O miserabile, la tua forza di ha perduto! Non vi è secondo noi nessun assurdo maggiore che tener per fermo che il fuoco non scalda, che la luce non illumina, che il ferro non è né pesante né consistente, che sono nozioni apportateci dai sensi, né credenza o scienza dell'uomo che possa paragonarsi con quella dei sensi in certezza”.

 

b) I sensi non danno conoscenze sicure

 

Per giudicare dell'opera dei sensi bisognerebbe che fossimo per prima cosa d'accordo con le bestie, e quindi tra di noi. Ciò che noi non siamo per nulla; ed entriamo in discussione tutte le volte che udiamo, vediamo o gustiamo qualcosa diversamente da un altro, e disputiamo, come di ogni altra cosa, della diversità delle immagini che i sensi ci portano. Un fanciullo ode e vede, per un ordine naturale delle cose, diversamente ed ha un gusto diverso da un uomo di trent'anni, e quest'ultimo diversamente da un sessantenne. I sensi di uno sono piú oscuri e velati, quelli di un altro sono piú pronti ed acuti. Noi riceviamo diversamente le cose a seconda della nostra struttura e a seconda di quello che ci sembra. Ora, essendo il nostro modo di vedere cosí incerto e controverso, non fa specie se ci vien detto che noi possiamo dichiarare che la neve ci appare bianca, ma che non sapremmo che rispondere se si trattasse di stabilire se essa è tale per essenza e per verità: e, scosso questo fondamento, tutta la conoscenza del mondo se ne va a catafascio. Che cosa dire quando i nostri sensi stessi si impacciano l'un l'altro? Un dipinto sembra in rilievo alla vista, piatto al tatto; che cosa diremo del muschio, che è gradevole o no, visto che rallegra il nostro spirito e offende il nostro gusto? Vi sono erbe ed unguenti adatti ad una parte del corpo, che nuocciono ad un'altra; il miele è piacevole al gusto, spiacevole alla vista, e vi sono anelli a foggia di penna e non vi è occhio che possa sostenerne la larghezza e che sappia rilevare questo inganno, che da un lato esse si vanno allargando, appuntendosi e stringendosi dall'altro, anche quando si girano intorno al dito, tuttavia al tatto sembrano eguali in larghezza da ogni parte.

 

c) Non esistono conoscenze stabili

 

Per giudicare delle apparenze che riceviamo dagli oggetti, abbiamo bisogno di uno strumento adatto di giudizio; per verificare questo strumento abbiamo bisogno della dimostrazione, per verificare la dimostrazione uno strumento adatto: cosí eccoci in un circolo vizioso. Dal momento che i sensi non sono in grado di porre fine alla nostra disputa, nessuna ragione avrà salda consistenza senza un'altra ragione: ecco perché noi retrocediamo fino all'infinito. Il nostro spirito non si applica a cose che le siano estranee, anche se è conosciuto per l'intermediario dei sensi ed i sensi non comprendono un oggetto estraneo a loro, ma solo le loro proprie affezioni, e cosí immaginazione ed apparenza non appartengono all'oggetto, ma solamente alla passività ed affezione dei sensi; la parola affezione è cosa diversa dall'oggetto. E come si può dire che le affezioni dei sensi portino all'anima le qualità degli oggetti estranei per rassomiglianza, dal momento che non hanno nessun commercio con gli oggetti estranei che possa assicurarci di tale rassomiglianza? Come colui che non conosce Socrate, vedendo un ritratto di lui non può dire se esso gli assomiglia. Ora vi è qualcuno che vorrebbe egualmente giudicare per mezzo delle apparenze: se ciò vuol dire per mezzo di tutte, allora è impossibile, poiché esse si impacciano l'una con l'altra con delle contraddizioni e discrepanze, come l'esperienza ci testimonia; se ciò vuol dire che alcune apparenze scelte regolano le altre, bisognerà allora verificare questa scelta per mezzo di un'altra scelta, la seconda con una terza e in questo modo, non avremo mai finito. Da ultimo, non vi è nessuna esistenza immutabile, né del nostro essere, né dell'essere degli oggetti. E cosí il nostro giudizio e tutte le cose mortali andiamo mutando e scorrendo senza posa. Cosí non si può stabilire nulla di certo dall'uno all'altro, e il giudicante e il giudicato sono in continuo mutamento e distruzione.

 

(Grande Antologia Filosofica, Marzorati, Milano, 1964, vol. VII, pagg. 170-171, 174, 175-176)