MANZONI, LA VIGNA DI RENZO
Renzo
rimase lì tristo e scontento, a pensar dove anderebbe a fermarsi. In quella
enumerazion di morti fattagli da don Abbondio, c'era una famiglia di contadini
portata via tutta dal contagio, salvo un giovinotto, dell'età di Renzo a un di
presso, e suo compagno fin da piccino; la casa era pochi passi fuori del paese.
Pensò d'andar lì.
E
andando, passò davanti alla sua vigna; e già dal di fuori poté subito
argomentare in che stato la fosse. Una vetticciola, una fronda d'albero di
quelli che ci aveva lasciati, non si vedeva passare il muro; se qualcosa si
vedeva, era tutta roba venuta in sua assenza. S'affacciò all'apertura (del
cancello non c'eran più neppure i gangheri); diede un'occhiata in giro: povera
vigna! Per due inverni di seguito, la gente del paese era andata a far legna -
nel luogo di quel poverino -, come dicevano. Viti, gelsi, frutti d'ogni sorte,
tutto era stato strappato alla peggio, o tagliato al piede. Si vedevano però
ancora i vestigi dell'antica coltura: giovani tralci, in righe spezzate, ma che
pure segnavano la traccia de' filari desolati; qua e là, rimessiticci o getti di
gelsi, di fichi, di peschi, di ciliegi, di susini; ma anche questo si vedeva
sparso, soffogato, in mezzo a una nuova, varia e fitta generazione, nata e
cresciuta senza l'aiuto della man dell'uomo. Era una marmaglia d'ortiche, di
felci, di logli, di gramigne, di farinelli, d'avene salvatiche, d'amaranti
verdi, di radicchielle, d'acetoselle, di panicastrelle e d'altrettali piante; di
quelle, voglio dire, di cui il contadino d'ogni paese ha fatto una gran classe a
modo suo, denominandole erbacce, o qualcosa di simile. Era un guazzabuglio di
steli, che facevano a soverchiarsi l'uno con l'altro nell'aria, o a passarsi
avanti, strisciando sul terreno, a rubarsi in somma il posto per ogni verso; una
confusione di foglie, di fiori, di frutti, di cento colori, di cento forme, di
cento grandezze: spighette, pannocchiette, ciocche, mazzetti, capolini bianchi,
rossi, gialli, azzurri. Tra questa marmaglia di piante ce n'era alcune di più
rilevate e vistose, non però migliori, almeno la più parte: l'uva turca, più
alta di tutte, co' suoi rami allargati, rosseggianti, co' suoi pomposi foglioni
verdecupi, alcuni già orlati di porpora, co' suoi grappoli ripiegati, guarniti
di bacche paonazze al basso, più su di porporine, poi di verdi, e in cima di
fiorellini biancastri; il tasso barbasso, con le sue gran foglie lanose a terra,
e lo stelo diritto all'aria, e le lunghe spighe sparse e come stellate di vivi
fiori gialli: cardi, ispidi ne' rami, nelle foglie, ne' calici, donde uscivano
ciuffetti di fiori bianchi o porporini, ovvero si staccavano, portati via dal
vento, pennacchioli argentei e leggieri. Qui una quantità di vilucchioni
arrampicati e avvoltati a' nuovi rampolli d'un gelso, gli avevan tutti ricoperti
delle lor foglie ciondoloni, e spenzolavano dalla cima di quelli le lor
campanelle candide e molli: là una zucca salvatica, co' suoi chicchi vermigli,
s'era avviticchiata ai nuovi tralci d'una vite; la quale, cercato invano un più
saldo sostegno, aveva attaccati a vicenda i suoi viticci a quella; e, mescolando
i loro deboli steli e le loro foglie poco diverse, si tiravan giù, pure a
vicenda, come accade spesso ai deboli che si prendon l'uno con l'altro per
appoggio. Il rovo era per tutto; andava da una pianta all'altra, saliva,
scendeva, ripiegava i rami o gli stendeva, secondo gli riuscisse; e,
attraversato davanti al limitare stesso, pareva che fosse lì per contrastare il
passo, anche al padrone.
Ma questo
non si curava d'entrare in una tal vigna; e forse non istette tanto a guardarla,
quanto noi a farne questo po' di schizzo. Tirò di lungo: poco lontano c'era la
sua casa; attraversò l'orto, camminando fino a mezza gamba tra l'erbacce di cui
era popolato, coperto, come la vigna. Mise piede sulla soglia d'una delle due
stanze che c'era a terreno: al rumore de' suoi passi, al suo affacciarsi, uno
scompiglìo, uno scappare incrocicchiato di topacci, un cacciarsi dentro il
sudiciume che copriva tutto il pavimento: era ancora il letto de'
lanzichenecchi. Diede un'occhiata alle pareti: scrostate, imbrattate,
affumicate. Alzò gli occhi al palco: un parato di ragnateli. Non c'era altro. Se
n'andò anche di là, mettendosi le mani ne' capelli; tornò indietro, rifacendo il
sentiero che aveva aperto lui, un momento prima; dopo pochi passi, prese
un'altra straducola a mancina, che metteva ne' campi; e senza veder né sentire
anima vivente, arrivò vicino alla casetta dove aveva pensato di fermarsi. Già
principiava a farsi buio. L'amico era sull'uscio, a sedere sur un panchetto di
legno, con le braccia incrociate, con gli occhi fissi al cielo, come un uomo
sbalordito dalle disgrazie, e insalvatichito dalla solitudine.
(I
promessi sposi, cap XXXIII)