La merce che ti ho venduto si distingue dal volgo delle altre merci per il fatto che il suo uso crea valore, e valore maggiore di quanto essa costi. E per questa ragione tu l’hai comprata. Quel che dalla tua parte appare come valorizzazione del capitale, dalla mia parte è dispendio eccedente di forza-lavoro. Tu ed io, sul mercato, conosciamo soltanto una legge, quella dello scambio di merci. E il consumo della merce non appartiene al venditore che la aliena, ma al compratore che l’acquista. A te dunque appartiene l’uso della mia forza-lavoro quotidiana. Ma, col suo prezzo di vendita quotidiano, io debbo, quotidianamente, poterla riprodurre, per poterla tornare a vendere. A parte il logorio naturale per l’età ecc., io debbo essere in grado di lavorare domani nelle stesse condizioni normali di forza, salute e freschezza di oggi. Tu mi predichi continuamente il vangelo della «parsimonia» e della «astinenza». Ebbene: voglio amministrare il mio unico patrimonio, la forza-lavoro, come un ragionevole e parsimonioso economo e voglio astenermi da ogni folle sperpero di essa. Ne voglio render disponibile quotidianamente, mettendolo in moto e convertendolo in lavoro, soltanto quel tanto che è compatibile con la sua durata normale e col suo sano sviluppo. Tu puoi mettere a tua disposizione, in un solo giorno, con uno smoderato prolungamento della giornata lavorativa, una quantità della mia forza-lavoro maggiore di quanta io ne possa ristabilire in tre giorni. Quel che tu guadagni così in lavoro, io lo perdo in sostanza lavorativa. L’uso della mia forza lavorativa e il depredamento di essa sono cose del tutto differenti. Se il periodo medio nel quale un operaio medio può vivere, data una misura ragionevole di lavoro, ammonta a trent’anni, il valore della mia forza-lavoro, che tu mi paghi di giorno in giorno, è [1 : (365 x 30)] cioè, 1 : 10.950 del suo valore complessivo. Ma se tu la consumi in 10 anni, tu mi paghi quotidianamente 1/10.950 del suo valore complessivo, invece di 1/3.650: cioè mi paghi soltanto un terzo del suo valore giornaliero, e mi rubi quindi quotidianamente due terzi del valore della mia merce. Tu mi paghi la forza-lavoro di un giorno, mentre consumi quella di tre giorni. Questo è contro il nostro contratto e contro la legge dello scambio delle merci. Io esigo quindi una giornata lavorativa di lunghezza normale, e lo esigo senza fare appello al tuo cuore, perchè in questioni di denaro non si tratta più di sentimento. Tu puoi essere un cittadino modello, forse membro della Lega per l’abolizione della crudeltà verso gli animali, per giunta puoi anche essere in odore di santità, ma la cosa che tu rappresenti di fronte a me non ha cuore che le batta in petto. Quel che sembra che vi palpiti, è il battito del mio proprio cuore. Esigo la giornata lavorativa normale, perchè esigo il valore della mia merce, come ogni altro venditore.
È evidente: astrazione fatta da limiti del tutto elastici, dalla natura dello scambio delle merci, così com’è, non risulta nessun limite della giornata lavorativa, quindi nessun limite del pluslavoro. Il capitalista, cercando di rendere più lunga possibile la giornata lavorativa e, quando è possibile, cercando di farne di una due, sostiene il suo diritto di compratore. Dall’altra parte, la natura specifica della merce venduta implica un limite del suo consumo da parte del compratore, mentre l’operaio, volendo limitare la giornata lavorativa ad una grandezza normale determinata, sostiene il suo diritto di venditore. Qui ha dunque luogo una antinomia: diritto contro diritto, entrambi consacrati dalla legge dello scambio delle merci.
Fra diritti eguali decide la forza.
Così nella storia della produzione capitalistica la regolazione della giornata lavorativa si presenta come lotta per i limiti della giornata lavorativa — lotta fra il capitalista collettivo, cioè la classe dei capitalisti, e l’operaio collettivo, cioè la classe operaia.
(Karl Marx, Il capitale, libro I, sez. III, cap. 8)