Nell'aristocrazia il potere sovrano è nelle mani di un certo numero di persone. Sono queste che fanno le leggi e le fanno eseguire; il resto del popolo non è tutt'al più, rispetto a esse, se non quello che in una monarchia sono i sudditi rispetto al monarca. Non vi si devono dare i voti a sorte; non se ne avrebbero che gli inconvenienti. Difatti, in un governo che ha già stabilito le più dure distinzioni, non si sarebbe meno odiosi anche se si sarebbe eletti a sorte: è il nobile che viene invidiato, non il magistrato. Quando i nobili sono in gran numero, è necessario un senato per regolare gli affari che il corpo dei nobili non sarebbe in grado di decidere, e preparare quelli su cui decidere. In tal caso, si può dire che l'aristocrazia è in qualche modo nel senato, la democrazia nel corpo dei nobili, e che il popolo non è niente. Sarà cosa felicissima, nell'aristocrazia, se, per qualche via indiretta, si farà uscire il popolo dal suo annientamento; così a Genova il Banco di San Giorgio, che è amministrato in gran parte dai principali personaggi del popolo, conferisce a questo una certa influenza nel governo, che ne fa tutta la prosperità.
(...) La migliore aristocrazia è quella in cui la parte del popolo che non partecipa al potere è tanto piccola e tanto povera, che la parte dominante non ha nessun interesse a opprimerla. Così Antipatro, quando stabilì in Atene che coloro che non possedevano duemila dramme fossero esclusi dal diritto di voto, formò la migliore aristocrazia possibile; infatti questo censo era tanto modesto che escludeva poca gente, e nessuno che godesse di qualche considerazione nella città. Le famiglie aristocratiche, dunque, devono essere popolo per quanto possibile. Quanto più una aristocrazia si avvicinerà alla democrazia, tanto più sarà perfetta; e lo diverrà tanto meno, a misura che si avvicinerà alla monarchia. La più imperfetta di tutte è quella in cui la parte del popolo che obbedisce è in condizione di servitù civile rispetto a quella che comanda, come l'aristocrazia della Polonia, dove i contadini sono schiavi della nobiltà.
(Montesquieu, “Lo spirito delle leggi”, II, cap. 3)