MARCUSE, L'autorità e la famiglia

 

Il rapporto autoritario, cosí come è inteso in queste ricerche, richiede la presenza di due momenti fondamentali nell'atteggiamento psicologico dell'oggetto dell'autorità: una determinata misura di libertà (libertà del volere: riconoscimerito e accettazione del soggetto dell'autorità che non si fonda sulla semplice costrizione), e, d'altro lato, soggezione, subordinazione della propria volontà (anzi del proprio pensiero, della propria ragione) alla volontà autoritaria dell'altro. Nel rapporto autoritario la libertà e l'illibertà, l'autonomia e l'eteronomia sono quindi simultaneamente presenti, e sono congiunte nell'unica persona dell'oggetto dell'autorità. Il riconoscimento dell'autorità come di una forza fondamentale della prassi sociale colpisce le stesse radici della libertà umana: significa (in un senso che varia secondo le circostanze) la rinuncia dell'autonomia a se stessa (autonomia del pensiero, del volere, dell'agire), la subordinazione della propria ragione e della propria volontà a contenuti assegnati da altri, e ciò in modo che tali contenuti non formano - per cosí dire - il «materiale» per la volontà trasformatrice dell'individuo, ma in modo che essi, cosi come sono, valgono come norme vincolanti per la sua ragione e la sua volontà. Ma la filosofia borghese aveva posto l'autonomia della persona al centro della sua teoria: la dottrina kantiana della libertà è solo l'espressione piú chiara ed estrema di una tendenza che è stata operante a cominciare dallo scritto di Lutero sulla libertà del cristiano. Il concetto di autorità riconduce quindi al concetto di libertà: è in gioco la libertà pratica dell'individuo, la sua libertà e illibertà sociale. L'unione di autonomia interna ed eteronomia esterna, la libertà che si è internamente spezzata cosí da diventare illibertà, è la caratteristica di quel concetto di libertà che ha dominato la teoria borghese a partire dalla riforma. Essa si è impegnata con tutte le sue forze a giustificare queste contraddizioni e questi antagonismi. L'individuo non può essere una persona insieme libera e non libera, autonoma ed eteronoma, se non si pensa che l'essere della persona possa essere ripartito, distribuito in sfere diverse. Il che è senz'altro possibile non appena si rinuncia all'ipostatizzazione dell'io come «sostanza». Ma ciò che è decisivo è il modo in cui viene effettuata questa suddivisione. Essa assume un carattere dualistico, di bipartizione: si stabilisce l'esistenza di due sfere relativamente chiuse in se stesse, e la libertà e l'illibertà vengono assegnate totalmente all'una o all'altra, in modo che la prima è interamente regno della libertà, e la seconda regno della illibertà. E - in secondo luogo - regno della libertà diventa ora l'«interiorità» della persona: la persona intesa come membro del regno della ragione, o del regno di Dio (come «cristiano»; come «cosa in sé»; come essere intelligibile), mentre tutto il «mondo esterno»: la persona come membro del regno della natura, o del mondo della concupiscenza decaduto e abbandonato da Dio (come «uomo»; come «fenomeno») diventa sede dell'illibertà. La concezione cristiana dell'uomo come ens creatum situato «fra» la natura naturata e la natura naturans, con l'imprescindibile eredità del peccato originale, ancora nell'idealismo tedesco resta la base inconcussa del concetto borghese di libertà. Ora il regno della libertà e il regno dell'illibertà non stanno semplicemente l'uno accanto (o sopra) all'altro, ma sono in un determinato rapporto di fondazione. Precisamente - l'espressione è sorprendente, ma deve essere mantenuta in tutta la sua paradossalità - la libertà è condizione dell'illibertà. Solo perché e nella misura in cui l'uomo è libero, può essere nell'illibertà; anzi, solo perché nella sua «autenticità» (come cristiano, come persona razionale) è interamente libero, non può non essere non libero nella sua «inautenticità» (come membro del mondo «esterno»). Poiché la piena libertà dell'uomo anche nel mondo «esterno» sarebbe insieme la sua intera liberazione da Dio, il suo asservimento al diavolo. Idea, questa, che ritorna in Kant in forma secolarizzata: solo se l'uomo come essere sensibile è interamente esposto alla necessità della natura, è possibile «salvare» la sua libertà come essere razionale. La dottrina cristiana della libertà afferma che la liberazione dell'uomo ha luogo prima della sua storia reale, che poi, come storia della sua illibertà, è una «eterna » conseguenza di questa liberazione. Anzi, a rigore non c'è liberazione dell'uomo nella storia, o meglio: per buone ragioni, essa considera questa liberazione come fondamentalmente negativa, cattiva, e cioè come la liberazione parziale da Dio (simboleggiata dal peccato originale), come libertà per il male. Come essere «interiormente» libero l'uomo appartiene fin dalla nascita ad un ordine sociale che è bensi posto o consentito da Dio, ma non rappresenta affatto la sfera in cui si decide dell'essere o del non essere dell'uomo. Quale possa essere quest'ordine: la libertà interna dell'uomo (la sua fede pura e la sua volontà pura, nella misura in cui egli crede e vuole in modo solo e del tutto puro) non può essere spezzata in esso. Il «potere secolare, che agisca secondo il diritto, o contro di esso, non può nuocere all'anima». Questa interiorità assoluta della persona, la trascendenza della libertà cristiana nei confronti di ogni autorità mondana, non può non comportare un «interiore» indebolimento e rottura del rapporto autoritario - per quanto completa possa essere la sottomissione esterna dell'individuo al potere terreno. Poiché il libero cristiano sa che egli nella sua «autenticità» è superiore alla legge mondana, che la sua essenza e il suo essere non possono essere toccati dalla legge, e che la sua sottomissione alle autorità terrene è un atto «libero» del quale in fondo non è «colpevole». «Qui vediamo che tutte le opere e le cose di un cristiano sono rese libere dalla sua fede; e tuttavia, poiché gli altri non credono ancora, egli sopporta con loro i loro pesi e osserva le leggi che non sarebbe tenuto a osservare. Ma egli lo fa con libertà». In questo trascendimento di ogni autorità terrena unito al riconoscimento di tutto il sistema delle autorità terrene, si annuncia un momento molto importante della teoria cristiano-borghese della libertà: la sua tendenza antiautoritaria. Il significato sociale di questa dottrina della libertà non si riduce affatto a quello di abbandonare interamente l'individuo a qualsiasi autorità terrena, e quindi approvare interamente il sistema di autorità di volta in volta dato. Il protestantesimo luterano e calvinista, che ha dato alla dottrina cristiana della libertà la sua forma decisiva per la società borghese, è legato allo sviluppo di una nuova, «giovane» società che ha dovuto conquistarsi la propria esistenza attraverso una dura lotta contro le autorità esistenti. Di contro ai vincoli universalistici del feudalesimo tradizionale, essa ha assolutamente bisogno di una liberazione dell'individuo anche all'interno dell'ordine terreno (piú tardi il modello del suo concetto di individuo sarà costituito essenzialmente dal singolo, libero soggetto economico), - ha bisogno di una emancipazione dell'autorità territoriale dall'autorità di una chiesa internazionale centralizzata e di un potere imperiale centrale, ha bisogno, inoltre, di una emancipazione della «coscienza» da numerose norme religiose ed etiche, per aprire la strada alla classe in ascesa. Sotto tutti questi punti di vista è necessario un atteggiamento antiautoritario; che verrà a espressione anche negli scritti che ci proponiamo di esaminare. Ma questa tendenza antiautoritaria è solo il complemento di un ordine che è direttamente legato al funzionamento di rapporti autoritari imperscrutabili. Nel concetto borghese di libertà si prepara fin dall'inizio il riconoscimento di determinate autorità metafisiche, che deve perpetuare nell'anima dell'uomo l'illibertà esterna. Viene cosí in luce un nuovo dissidio nel concetto borghese e protestante di libertà: un conflitto tra la ragione e la fede, tra fattori razionali e irrazionali (anzi antirazionali). Di contro all'accentuazione spesso esagerata del carattere razionale, «calcolatore» dello «spirito» capitalistico-protestante, occorre sottolineare soprattutto i suoi momenti irrazionali. Alla base di questo modo di esistenza totale, razionalizzato e calcolato fin nei minimi particolari, «perfettamente conforme al suo modello ideale», di questa «impresa» totale che comprende la vita privata, la famiglia, l'azienda, c'è una fondamentale situazione di disordine: i conti non tornano - né nell'«impresa» particolare né in quella generale. Il quotidiano travaglio, l'esercizio quotidiano di «ascetismo intramondano» per ottenere successo e profitto, deve nondimeno sentirli, alla fine (se riesce a raggiungerli), come una fortuna imprevedibile, e si vede messo sempre di nuovo di fronte alla paura di perderli: la riproduzione della società nel suo complesso è possibile solo a condizione di continue crisi. Che la produzione e riproduzione della vita di questa società non possa essere controllata razionalmente, è una realtà che viene sempre di nuovo in luce nella riflessione teologica e filosofica sulla sua esistenza. Il terribile deus absconditus del calvinismo è solo una delle forme piú acute ed estreme assunte da questa riflessione; ad esse appartengono sia la veemente difesa luterana del servum arbitrium, come la frattura che spacca in due l'etica kantiana, fra la pura forma della legge universale e la materia della sua realizzazione. - La «ragione», sotto il segno della quale la borghesia ha combattuto le sue maggiori battaglie, proprio in questa stessa società è privata a priori della possibilità di realizzarsi. Il settore della natura dominato dagli uomini attraverso metodi razionali è infinitamente piú grande che nel medioevo, il processo della produzione materiale della società è per larghi tratti razionalizzato fin nei minimi particolari - ma resta «irrazionale» se considerato nella sua totalità.

 

(Herbert Marcuse, L'autorità e la famiglia, Introduzione)