Nietzsche, Platone e l'immortalità dell'anima

Nel 1869 Friedrich Nietzsche fu chiamato a insegnare filologia all’Università di Basilea. Negli anni 1871-1872, 1873-1874 e 1876 tenne corsi su Platone. Nietzsche aveva l’abitudine di preparare le proprie lezioni tracciandone lo schema o scrivendole per intero: la pagina che segue proviene dagli appunti per il corso del 1876, e ci sembra una sintesi molto chiara ed efficace della dottrina platonica dell’anima. Naturalmente Nietzsche non è un espositore neutrale del pensiero platonico: egli ha grande ammirazione per la filosofia di Platone e ancora di piú per l’uomo Platone (nella Introduzione delle lezioni all’università di Basilea egli scrive: “La teoria delle Idee è qualcosa di stupefacente [...]. L’uomo è ancora piú interessante dei suoi libri”); ma non può fare a meno di mettere in evidenza come nel platonismo la realtà delle Idee e l’affermazione dell’immortalità dell’anima tolgano ogni valore al “mondo empirico” in cui viviamo, e portino a considerare il corpo come “prigione” (a questo proposito si veda, ad esempio, Cratilo, 400 c, dove il corpo è definito séma – “tomba” – dell’anima). Le parole greche usate da Nietzsche significano: “le cose che sono”, “enti” (ónta); “identico” (íson); “bene” (agathón); “conoscenza”, “scienza” (epistéme); “ricordo”, “riminiscenza” (anámnesis). Maya nell’antico peniero indiano rappresenta l’illusione, la manifestazione illusoria che copre come un velo la realtà. La testimonianza di Filolao (filosofo pitagorico contemporaneo di Platone) richiamata da Nietzsche è riportata nei Frammenti dei presocratici di Diels e Kranz (ffr.44 B 14-15, 22), dove fra l’altro si legge: “Il pitagorico [Filolao] dice cosí: “Anche gli antichi teologi e gli antichi vati testimoniano che per espiare qualche colpa l’anima è unita al corpo e in questo sepolta””; “Euxiteo pitagorico [...] diceva [...] che tutte le anime sono legate al corpo e alla vita di quaggiú per espiare” (fr. 14).

 

F. Nietzsche, Plato amicus sed, II, 19

 

Vediamo che Platone deve ai pitagorici l’ipotesi di una molteplicità di ónta, cioè di oggetti non sensibili, e anche la teoria secondo la quale le cose empiriche sarebbero imitazioni di quegli ónta veri. Ora, pur vivendo noi solo nel mondo empirico, come perveniamo a sapere qualcosa delle idee? Da dove raggiungiamo l’íson, l’agathón, che a noi non si presentano nella realtà? Da dove determiniamo quella somiglianza delle cose con l’idea? A Platone viene a questo punto in aiuto la teoria dell’immortalità dell’anima. Come dice Filolao, le anime sono imprigionate nei corpi per punizione, il corpo è un carcere, nel quale la divinità le ha rinchiuse per punizione, e dal quale perciò esse non si possono liberare a proprio piacimento. Quando l’anima si è separata dal corpo, conduce un’esistenza incorporea in un mondo superiore. Ma questo naturalmente solo se si è mostrata degna di questa felicità. Altrimenti si ha la trasmigrazione delle anime, che per espiazione passano attraverso diversi corpi. Platone accetta interamente questa teoria. Il conoscente è una sostanza immateriale del tutto diversa dal corpo, denominata anima; il corpo è un’ostacolo alla conoscenza. Perciò è fallace ogni conoscenza mediata dai sensi: la sola vera è quella libera e sgombra da ogni sensibilità (quindi intuizione); perciò il pensare puro, l’operare con concetti astratti. L’anima realizza ciò solo con mezzi propri; di conseguenza il processo si svolge nel migliore dei modi se essa si è separata dal corpo. Una teoria estremamente gravida di conseguenze! Solo Locke spinse di nuovo per una ricerca sull’origine dei concetti e sostenne che non esistono concetti innati. Quindi: 1. c’è conoscenza (Socrate), 2. ma come è possibile? mediante la preesistenza dell’anima, la rammemorazione, epistéme = anámnesis, rapporto con i veri ónta, corpo e senso come nebbia e maya.

 

(F. Nietzsche, Plato amicus sed. Introduzione ai dialoghi platonici,  Bollati Boringhieri, Torino, 1991, pagg. 94-95)