Forse
l’unico che rimase amico di Nietzsche fino alla fine fu F. Overbeck, di cui
particolarmente preziosa è la testimonianza sulla follia del filosofo, già
prevista nel 1875 da Cosima Wagner, la quale, commentando alcune lettere
inviategli da Nietzsche, aveva affermato di temere che egli avrebbe fatto la
fine di Hölderlin. Nella prima parte della lettura Overbeck interpreta l’evento
tragico come conseguenza di diversi fattori, in particolare la sua megalomania.
Nella seconda parte Overbeck accenna al fatto che Nietzsche si considerava il
successore della morte di Dio, il giullare della nuova eternità. Nella terza
colpisce soprattutto l’espressione: “Per Nietzsche è finita”.
F. Overbeck, Lettere al signor Köselitz
(lettere a P. Gast-Köselitz del gennaio 1889)
Mio caro Signor Köselitz,
verso nessuno piú che verso di Lei, io mi sento obbligato di dare comunicazione immediata di una atroce disgrazia. Alcune lettere indirizzate qui mi fecero costatare il manifestarsi della follia di Nietzsche. Lunedí sera partii per Torino, ieri mattina ho affidato Nietzsche, o piuttosto un cumulo di rovine di lui riconoscibili soltanto per l’amico, all’ospedale psichiatrico di qui. Ivi il suo caso, caratterizzato in primo luogo dalla piú smisurata megalomania, (ma anche da molte altre cose!) viene considerato senza speranza. Non ho mai visto un’immagine tanto atroce della distruzione. Per molte ragioni devo oggi por termine a questa comunicazione. Quale risposta alla Sua lettera che ho trovato al mio ritorno! Lei sa in ogni caso quanto io mi affligga con Lei.
Suo dev.mo
Overbeck
[...]
Il 6 gennaio Jakob Burckhardt ricevette una lettera di cui egli mi informò subito, affidandomela temporaneamente in quanto primo documento decisivo per il mio intervento. Allora divenne per me chiaro che tra questa e la lettera precedente Nietzsche aveva perduto se stesso – il 4 gennaio, come mi fu in seguito confermato dal suo padrone di casa. Nietzsche non era soltanto re ma padre di altri re (Umberto ecc.), era stato egli stesso al suo funerale (a quello di suo figlio Robilant) e cosí via, e tutto nel tono scurrile di un folle. Disorientato, nella mia disperazione, scrissi subito una lettera molto urgente, pregando Nietzsche di venire subito da me; si trattava, come venni a sapere un giorno dopo dal primario del nostro ospedale psichiatrico, di una follia doppia, le cui possibili conseguenze io troncai subito, quel giorno stesso, con l’annuncio telegrafico della mia partenza immediata. Il collega Wille infatti – cosí si chiama quel primario – dopo che gli ebbi mostrato quella lettera a Burckhardt e un’altra breve che ricevetti io stesso lunedí mattina, non mi lasciò dubbi sul fatto che non bisognava perdere tempo, e che, se mi sentivo in qualche modo obbligato, dovevo partire subito. E di questo gli sono ora molto grato, avendomi cosí spinto subito ad intraprendere piú di quel che ero cosciente di poter fare. Di fatto io non avrei dovuto arrivare a Torino un’ora piú tardi. Lo stesso pomeriggio – quello cioè del mio arrivo, otto giorni or sono – la cosa divenne uno scandalo pubblico, perché il padrone di casa, il cui ritrovamento si aggrovigliò per me in particolare complicazioni, era stato alla polizia e al Consolato tedesco, come seppi quando finalmente ebbi di fronte a me la moglie, mentre un’ora prima, come ho già potuto constatare, nulla era ancora noto alla polizia. Nietzsche, che già un giorno prima era caduto ed era stato raccolto per strada, correva il pericolo di finire al piú presto in un manicomio privato, e di essere circondato da avventurieri, che in Italia in una tale circostanza possono ritrovarsi insieme piú rapidamente che altrove. Era l’ultimo momento nel quale era ancora possibile portarlo via senza ostacoli particolari, salvo il suo proprio stato. Tralascio di descrivere le condizioni toccanti in cui trovai Nietzsche, affidato alle cure dei suoi padroni in casa (proprietari di un chiosco di giornali in Via Carlo Alberto): anch’esse possono essere ritenute tipiche per l’Italia. Ritorno alla cosa principale, cioè al momento terribile in cui io rividi Nietzsche, un momento terribile in un senso del tutto singolare, e completamente diverso da tutto quanto accadde dopo. Scorsi Nietzsche accovacciato nell’angolo di un divano mentre leggeva – come risultò poi si trattava delle ultime bozze del Nietzsche contra Wagner – con un aspetto tremendamente deperito; egli mi vide e si precipitò su di me, mi abbracciò forte riconoscendomi, e scoppiò in un fiume di lacrime; con sussulti si risprofondò poi nel divano, mentre io, anche per la scossa, non ero in grado di rimanere in piedi. Gli si è forse aperto in quel momento l’abisso in cui si trova o piuttosto in cui è precipitato? Ad ogni modo nulla del genere è venuto a ripetersi. L’intera famiglia Fino era presente. Non appena Nietzsche giaceva di nuovo là tra gemiti e sussulti, gli fu fatta inghiottire una soluzione di bromuro che si trovava sulla tavola. Subito iniziò l’azione calmante, e Nietzsche ridendo si diede a parlare del grande ricevimento che veniva preparato per la sera; si trovava cosí nel giro delle sue folli raffigurazioni dal quale non uscí piú fin tanto che gli fui vicino, sempre lucido su di me e in generale sulle persone altrui, ma racchiuso in una notte completa su se stesso. Ossia, accadde che, con canti rumorosi e in accessi di delirio al pianoforte che andavano crescendo fuori di misura, egli fece uscire con impeto brandelli del mondo di pensiero in cui in ultimo aveva vissuto, e al tempo stesso, in frasi brevi, pronunziate con un tono indescrivibilmente smorzato, enunciava cose sublimi, meravigliosamente lucide e indicibilmente spaventevoli su se stesso, come colui che succedeva alla morte di Dio, interpuntando per cosí dire il tutto al pianoforte; a questo seguirono novamente convulsioni e il manifestarsi di una sofferenza indicibile, ma, come ho detto, questo si verificò, quando io ero presente, solo in alcuni momenti fugaci; in complesso però prevalsero le espressioni della professione che egli stesso si attribuí, quella di giullare della nuova eternità, ed egli, maestro ineguagliabile dell’espressione, non era in grado di riprodurre i rapimenti della sua gaiezza se non con le espressioni piú triviali o danzando e saltando in modo scurrile. Il tutto veniva accompagnato dalla piú infantile innocuità, che non lo aveva abbandonato neppure nelle tre notti in cui, già smaniando, tenne desta tutta la casa; e proprio questa innocuità, insieme con una docilità quasi illimitata, non appena ci si prestava alle sue idee di ricevimenti e di ingressi regali, di musiche festose e cosí via, trasformò il trasporto fin qui in un gioco da ragazzi.
[...]
Mi risparmi di descriverLe l’afflizione di quei quattro giorni in cui avevamo presso di noi la signora N., e la partenza, il momento atroce e indimenticabile in cui, verso le otto, attraverso l’atrio della stazione centrale, illuminato in maniera stridente, vidi passare Nietzsche condotto in modo serrato dai suoi accompagnatori, con un passo affrettato ma insieme vacillante, con un contegno rigido in modo innaturale; il viso era divenuto simile a una maschera, e, senza parlare, dalla vettura pubblica arrivò subito al compartimento riservato per lui.
[...]
Per N. è finita! A riguardo non mi occorre neppure la conferma del giudizio esperto del medico, secondo il quale si tratta di una paralisi che può soltanto progredire, ed è impossibile ottenere una qualche guarigione, ma soltanto momenti di calma. Tanto oltre è andata la cosa con questo eroe della libertà; ora egli non pensa piú alla libertà”.
K. Löwith, Critica dell’esistenza storica,
Morano, Napoli, 1967, pagg. 191-197