Presso di noi il caso è molto diverso: lo spagnolo che abbia la pretesa di fuggire dalle preoccupazioni nazionali cadrà loro prigioniero dieci volte al giorno e finirà per comprendere che per un uomo nato tra il Bidassoa e Gibilterra la Spagna è il problema primo, totale e perentorio. Questo problema è quello di trasformare la realtà sociale circostante. Lo strumento per produrre codesta trasformazione si chiama politica. Lo spagnolo ha bisogno, quindi, di essere prima di tutto politico.
La politica può significare due cose: arte di governare o arte di conquistare il Governo e conservarlo. In altre parole: v'è un'arte di legiferare e un'arte di imporre una data legislazione. Ricercare quale legge sia la più discreta in ogni caso e ricercare quale mezzo potrebbe essere adottato per far sì che quella legge si trasformi in legge scritta e vigente, sono questioni molto diverse, ma è necessario ripetere, in ogni momento, che è un atto immorale porsi come conquistatore del potere senza essersi creato prima un ideale politico. Certo: politica significa azione, però l'azione è anche movimento, significa andare da un luogo ad un altro, significa muovere un passo, e il passo da farsi esige una direzione che vada diritta fino all'infinito. Presso di noi si è operata una separazione indebita tra la politica come azione e la politica come ideale, quasi che l'azione politica possa avere significato disgiunta dalla teoria politica. La storia contemporanea del nostro paese ha reso manifesto fino a che livello di miseria può arrivare una politica attiva priva di ideale politico.
E' necessario trasformare la Spagna: fare di essa un'altra cosa, renderla diversa da ciò che essa è oggi. Cosa fare? Cosa deve essere quella Spagna ideale verso la quale orientiamo i nostri cuori, come i volti dei ciechi, che sono soliti orientarsi verso la parte da cui emana un po' di luminosità? Se educazione significa trasformazione di una realtà secondo una certa idea in nostro possesso e se l'educazione altro non deve essere che educazione sociale, otterremo che la pedagogia viene ad essere la scienza della trasformazione delle società. Prima abbiamo chiamato ciò politica: ecco, dunque, che la politica è diventata per noi pedagogia sociale e che il problema spagnolo è diventato un problema pedagogico.
Come fare, in effetti, a migliorare la Spagna seriamente se non possediamo un'idea un po' esatta di ciò che deve essere una società?
Abbiamo visto che il fatto sociale ci si manifestava quando, ricercando la realtà dell'individuo, trovavamo questi reale unicamente quando era unito e collegato ad altri individui, quando considerando ciascun uomo isolatamente trovavamo che il suo interno era fatto di materiali comuni agli altri uomini. In effetti, signori, il sociale è la combinazione degli sforzi individuali per realizzare un'opera comune. La società non è originariamente la comunanza di sentimenti, di gusti, di affetti: se non fosse essenziale per l'uomo ottenere certi prodotti che soltanto comunitariamente possono essere realizzati, la società non esisterebbe e il mondo sarebbe abitato da solitari che nel passare l'uno accanto all'altro neppure si noterebbero, come l'albero in mezzo alla densità del bosco si trova isolato e senza sospetto che le sue foglie si intrecciano a quelle dell'altro albero ad esso vicino.
Cercate di ottenere che nelle classi dirigenti, entro venti anni, vi sia un buon numero di spagnoli personalmente attivi nel lavoro scientifico: vedrete come, pur dissentendo in mille cose, automaticamente saranno d'accordo ogni volta che si tratti di risolvere i grandi problemi culturali. Cultura è operosità, produzione delle cose umane; è fare scienza, fare morale, fare arte. Quando parliamo di maggiore o minore cultura vogliamo dire maggiore o minore capacità di produrre cose umane, maggiore o minore capacità di lavoro. Le cose, i prodotti sono la misura e il sintomo della cultura. Noi spagnoli - questa è la nostra grave maledizione - abbiamo perso la tradizione culturale; detto in maniera più semplice, abbiamo perduto l'interesse per le cose, per il lavoro produttore di manufatti - mentejacturas umane. Ebbene, questa suprema pedagogia delle cose, questa suprema disciplina degli oggetti ci manca; ci governano e ci dirigono soltanto gli appetiti individuali, i mutevoli umori sentimentali, le nostre simpatie o antipatie. E siccome i motivi di divergenza e antipatia tra individui sono di gran lunga maggiori di quelli di concordia e di simpatia, ecco qui la nostra nazione disgregata in atomi: la nostra attività si riduce nella reciproca repulsione che le personalità, i gruppi e le regioni hanno tra loro.
Dobbiamo tentare il miglioramento del nostro essere radicale: ci è necessario, naufraghi del personalismo, aggrapparci a qualsiasi cosa che di per sé ci faccia restare a galla: questo è quello che altre volte ho espresso con un grido che mi nasceva dalle dolenti viscere di spagnolo: salviamoci nelle cose! Poi, riflettendo su Pestalozzi, ho visto che egli non voleva dire cosa diversa con la sua "educazione del lavoro" (Arbeitsbildung), che significa, contemporaneamente, educazione al lavoro e educazione attraverso il lavoro. Le cose, cosa sono se non le nostre opere, il prodotto del nostro lavoro. Un gruppo di uomini che lavorano ad un'opera comune ricevono nei loro cuori, per via riflessa, l'unità di quell'opera, per cui nasce in essi l'unanimità. La vera comunità o società si fonda nell'unanimità del lavoro.
La Spagna futura, signori, deve essere questo: comunità, oppure non sarà. Un popolo è una comunione: in tutti gli istanti nel lavoro, nella cultura; un popolo è un corpo di lavoratori ed un compito. Un popolo è un corpo pluralistico dotato di una unica anima. Democrazia. Un popolo è una scuola di umanità.
Questa è la tradizione che ci propone l'Europa; per questo il cammino dall'allegria al dolore che ripercorriamo sarà, con nome diverso, il cammino dell'europeizzazione. Un grande bilbaino ha detto che sarebbe meglio l'africanizzazione; però questo gran bilbaino, Miguel de Unamuno, non so come si regola ove si consideri il fatto che, quantunque ci si presenti come africanizzatore, è, lo voglia o no, per la potenza del suo spirito e della sua densa religiosità culturale, uno dei direttori dei nostri aneliti europei.
L'ultima volta che sono stato nella vostra città fu un anno tristissimo: 1898. Che abisso di dolore! Non è vero? Allora si cominciò a parlare di rigenerazione.
La parola rigenerazione non sopravviene da sola alla coscienza spagnola: non appena si comincia a parlare di rigenerazione si inizia a parlare di europeizzazione. Collegando strettamente ambedue le parole, Joaquin Costa edificò una volta per tutte lo scudo di quelle speranze peninsulari. Il suo libro Reconstitución y europeización de España ha orientato per dodici anni la nostra volontà, dato che in esso apprendemmo lo stile politico, la sensibilità storica e il miglior castigliano. Anche quando divergessimo in taluni punti fondamentali dalla sua maniera di vedere il problema nazionale, volgeremo sempre con reverenza lo sguardo a quel giorno in cui sulla desolata pianura morale e intellettuale di Spagna si levo solitaria la sua testa enorme, ampia, alta, quadrata come un castello. Rigenerazione è inseparabile da europeizzazione; perciò, non appena si avvertì l'emozione ricostitutiva, l'angoscia, la vergogna e l'anelito, si pensò l'idea europeizzatrice. La rigenerazione è il desiderio; l'europeizzazione il mezzo per soddisfarlo. Si vide veramente chiaro fin dal principio che la Spagna era il problema e l'Europa la soluzione.
(Ortega y Gasset, Pedagogia sociale come programma politico,
1910)