Siamo di fronte a uno dei piú
famosi pensieri di Pascal, che ha fatto tanto discutere per la sua originalità
e la sua audacia. Lo stesso manoscritto pascaliano è molto tormentato, pieno di
aggiunte e di cancellature. Comunque il senso è chiaro: la fede coinvolge l'esistenza. E, a livello
esistenziale, i ragionamenti sono scarsamente efficaci: nessun argomento può
essere convincente se chi ascolta non vuole essere convinto. Ma la ragione può
avere una funzione anche al di là del mondo delle certezze, cioè nel campo del
possibile e del probabile. Il cavaliere di Méré, un libertino amante del gioco
ha chiesto al suo amico Pascal di risolvere problemi di probabilità legati alle
puntate nel gioco d'azzardo: la risposta di Pascal è l'elaborazione di una
teoria della probabilità, fondata su calcoli matematici che, se applicati alla
questione dell'esistenza di Dio, possono risultare convincenti anche per coloro
ai quali Dio non ha fatto il dono della fede. Nella dialettica fra infinito e
nulla l'uomo è costretto a scegliere, e la scelta può voler dire rischiare la
vita eterna.
Pascal, Pensieri S. 164; B.
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164. Infinito, nulla. La nostra anima vien gettata nel corpo, dove trova numero, tempo, dimensioni. Essa vi ragiona sopra, e chiama tutto ciò natura, necessità, e non può credere altro.
L'unità aggiunta all'infinito non lo accresce menomamente,
non piú che la misura di un piede a una misura infinita. Dinanzi all'infinito,
il finito si annichila e diventa un puro nulla. Cosí il nostro spirito davanti
a Dio e la nostra giustizia davanti alla giustizia divina.
Tra la nostra giustizia e quella di Dio non c'è una
sproporzione cosí grande come tra l'unità e l'infinito.
La giustizia di Dio dev'essere immensa come la sua
misericordia. Ora, la giustizia verso i reprobi è meno immensa e deve urtarci
meno della misericordia verso gli eletti.
Noi sappiamo che esiste un infinito, e ne ignoriamo la
natura. Dacché sappiamo che è falso che i numeri siano finiti, è vero che c'è
un infinito numerico. Ma non sappiamo che cosa è: è falso che sia pari, è falso
che sia dispari, perché, aggiungendovi l'unità, esso non cambia natura.
Tuttavia, è un numero, e ogni numero è pari o dispari (vero è che ciò s'intende
di ogni numero finito). Perciò si può benissimo conoscere che esiste un Dio
senza sapere che cos'è.
Forse che non c'è una verità sostanziale, dacché vediamo
tante cose che non sono la stessa verità?
Noi conosciamo, dunque, l'esistenza e la natura del finito,
perché siamo finiti ed estesi come esso. Conosciamo l'esistenza dell'infinito e
ne ignoriamo la natura, perché ha estensione come noi, ma non limiti come noi.
Ma non conosciamo né l'esistenza né la natura di Dio, perché è privo sia di
estensione sia di limiti.
Tuttavia, grazie alla fede ne conosciamo l'esistenza, nello
stato di gloria ne conosceremo la natura. Ora, ho già dimostrato che si può
benissimo conoscere l'esistenza di una cosa, senza conoscerne la natura.
Parliamo adesso secondo i lumi naturali.
Se c'è
un Dio, è infinitamente incomprensibile, perché, non avendo né parti né limiti,
non ha nessun rapporto con noi. Siamo, dunque, incapaci di conoscere che cos'è
né se esista. Cosí stando le cose, chi oserà tentare di risolvere questo
problema? Non certo noi, che siamo incommensurabili con lui.
Chi
biasimerà allora i cristiani di non poter dar ragione della loro credenza, essi
che professano una religione di cui non possono dar ragione? Esponendola al
mondo, dichiarano che è una stoltezza, stultitiam; e voi vi lamentate
che non ne diano le prove! Se la provassero, mancherebbero di parola: solo
difettando di prove, non difettano di criterio.
“Sta
bene, ma, sebbene ciò serva a scusare coloro che la presentano come tale, e li
assolva dalla taccia di presentarla senza ragione, non scusa per coloro che la
accolgono”.
Esaminiamo
allora questo punto, e diciamo: “Dio esiste o no?” Ma da qual parte
inclineremo? La ragione qui non può determinare nulla: c'è di mezzo un caos
infinito. All'estremità di quella distanza infinita si gioca un giuoco in cui
uscirà testa o croce. Su quale delle due punterete? Secondo ragione, non potete
puntare né sull'una né sull'altra; e nemmeno escludere nessuna delle due. Non
accusate, dunque, di errore chi abbia scelto, perché non ne sapete un bel
nulla.
“No,
ma io li biasimo non già di aver compiuto quella scelta, ma di avere scelto;
perché, sebbene chi sceglie croce e chi sceglie testa incorrano nello stesso
errore, sono tutte e due in errore: l'unico partito giusto è di non scommettere
punto”.
Sí, ma
scommettere bisogna: non è una cosa che dipenda dal vostro volere, ci siete
impegnato. Che cosa sceglierete, dunque? Poiché scegliere bisogna, esaminiamo
quel che v'interessa meno. Avete due cose da perdere, il vero e il bene, e due
cose da impegnare nel giuoco: la vostra ragione e la vostra volontà, la vostra
conoscenza e la vostra beatitudine; e la vostra natura ha da fuggire due cose:
l'errore e l'infelicità. La vostra ragione non patisce maggior offesa da una
scelta piuttosto che dall'altra, dacché bisogna necessariamente scegliere. Ecco
un punto liquidato. Ma la vostra beatitudine? Pesiamo il guadagno e la perdita,
nel caso che scommettiate in favore dell'esistenza di Dio. Valutiamo questi due
casi: se vincete, guadagnate tutto; se perdete, non perdete nulla. Scommettete,
dunque, senza esitare, che egli esiste.
“Ammirevole!
Sí, bisogna scommettere, ma forse rischio troppo”.
Vediamo.
Siccome c'è eguale probabilità di vincita e di perdita, se aveste da guadagnare
solamente due vite contro una, vi converrebbe già scommettere. Ma, se ce ne
fossero da guadagnare tre, dovreste giocare (poiché vi trovate nella necessità
di farlo); e, dacché siete obbligato a giocare, sareste imprudente a non
rischiare la vostra vita per guadagnarne tre in un giuoco nel quale c'è eguale
probabilità di vincere e di perdere. Ma qui c'è un'eternità di vita e di
beatitudine. Stando cosí le cose, quand'anche ci fosse un'infinità di casi, di
cui uno solo in vostro favore, avreste pure sempre ragione di scommettere uno
per avere due; e agireste senza criterio, se, essendo obbligato a giocare,
rifiutaste di arrischiare una vita contro tre in un giuoco in cui, su
un'infinità di probabilità, ce ne fosse per voi una sola, quando ci fosse da
guadagnare un'infinità di vita infinitamente beata. Ma qui c'è effettivamente
un'infinità di vita infinitamente beata da guadagnare, una probabilità di
vincita contro un numero finito di probabilità di perdita, e quel che rischiate
è qualcosa di finito. Questo tronca ogni incertezza: dovunque ci sia
l'infinito, e non ci sia un'infinità di probabilità di perdere contro quella di
vincere, non c'è da esitare: bisogna dar tutto. E cosí, quando si è obbligati a
giocare, bisogna rinunziare alla ragione per salvare la propria vita piuttosto
che rischiarla per il guadagno infinito, che è altrettanto pronto a venire
quanto la perdita del nulla.
Invero,
a nulla serve dire che è incerto se si vincerà, mentre è certo che si
arrischia; e che l'infinita distanza tra la certezza di quanto si
rischia e l'incertezza di quanto di potrà guadagnare eguaglia il bene
finito, che si rischia sicuramente, all'infinito, che è incerto. Non è cosí:
ogni giocatore arrischia in modo certo per un guadagno incerto; e nondimeno
rischia certamente il finito per un guadagno incerto del finito, senza con ciò
peccare contro la ragione. Non c'è una distanza infinita tra la certezza di
quanto si rischia e l'incertezza della vincita: ciò è falso. C'è, per vero, una
distanza infinita tra la certezza di guadagnare e la certezza di perdere. Ma
l'incertezza di vincere è sempre proporzionata alla certezza di quanto si
rischia, conforme alla proporzione delle probabilità di vincita e di perdita.
Di qui consegue che, quando ci siano eguali probabilità da una parte e
dall'altra, la partita si gioca alla pari, e la certezza di quanto si rischia è
eguale all'incertezza del guadagno: tutt'altro, quindi, che esserne
infinitamente distante! E, quando c'è da arrischiare il finito in un giuoco in
cui ci siano eguali probabilità di vincita e di perdita e ci sia da guadagnare
l'infinito, la nostra proposizione ha una validità infinita. Ciò è
dimostrativo; e, se gli uomini son capaci di qualche verità, questa ne è una.
“Lo
riconosco, lo ammetto. Ma non c'è mezzo di vedere il di sotto del giuoco?”.
Sí,
certamente, la Scrittura e il resto.
“Sta
bene. Ma io ho le mani legate, e la mia bocca è muta; sono forzato a
scommettere, e non sono libero; non mi si dà requie, e sono fatto in modo da
non poter credere. Che volete, dunque, che faccia?”
È
vero. Ma riconoscete almeno che la vostra impotenza di credere proviene dalle
vostre passioni, dacché la ragione vi ci porta, e tuttavia non potete credere.
Adoperatevi, dunque, a convincervi non già con l'aumento delle prove di Dio,
bensí mediante la diminuzione delle vostre passioni. Voi volete andare alla
fede, e non ne conoscete il cammino; volete guarire dall'incredulità, e ne
chiedete il rimedio: imparate da coloro che sono stati legati come voi e che
adesso scommettono tutto il loro bene: sono persone che conoscono il cammino
che vorreste seguire e che son guarite da un male di cui vorreste guarire.
Seguite il metodo con cui hanno cominciato: facendo cioè ogni cosa come se
credessero, prendendo l'acqua benedetta, facendo dire messe, ecc. In maniera
del tutto naturale, ciò vi farà credere e vi impecorirà.
“Ma è
proprio quel che temo”.
E
perché? che cosa avete da perdere? Ma, per dimostrarvi che ciò conduce alla
fede, sappiate che ciò diminuirà le vostre passioni, che sono i vostri grandi
ostacoli.
Fine
di questo discorso. Ora, qual male vi capiterà prendendo questo partito?
Sarete fedele, onesto, umile, riconoscente, benefico, amico sincero, veritiero.
A dir vero, non vivrete piú nei piaceri pestiferi, nella vanagloria, nelle
delizie; ma non avrete altri piaceri? Vi dico che in questa vita ci guadagnerete;
e che, a ogni nuovo passo che farete in questa via, scorgerete tanta certezza
di guadagno e tanto nulla in quanto rischiate, che alla fine vi renderete conto
di avere scommesso per una cosa certa, infinita, per la quale non avete dato
nulla.
“Oh!
codesto discorso mi conquista, mi esalta, eccetera”.
Se
questo discorso vi piace e vi sembra valido, sappiate che è fatto da un uomo
che si è messo in ginocchio prima e dopo, per pregare quell'Essere infinito e
senza parti, al quale sottomette tutto il suo essere, affinché si sottometta
anche il vostro, per il vostro bene e per la sua gloria, e che, quindi, la sua
forza si accorda con questa umiliazione.
(B. Pascal, Pensieri, a cura di P. Serini, Einaudi,
Torino, 1967, pagg. 65-71)