Viene riportato per intero il Colloquio con il Signore di Saci
su Epitteto e Montaigne, in cui Pascal espone la sua dottrina antropologica.
Il Signore di Saci era il direttore del monastero di Port Royal des Champs e
parente di A. Arnauld. Il resoconto di questa conversazione fu scritto dal
segretario del Signore di Saci, Nicolas Fontaine, probabilmente su appunti
fornitigli da Pascal stesso. Le tre antropologie in questione sono quella
stoica, quella scettica e quella cristiana.
B. Pascal, Colloquio con il
Signore di Saci su Epitteto e Montaigne
Il signor Pascal venne anche lui
in quel tempo ad abitare a Port-Royal [...] Il signor de Saci non poté per
urbanità esimersi dal vederlo, soprattutto perché ne era stato pregato dal
signor Singlin. Ma i santi lumi che trovava nella Scrittura e nei Padri gli
fecero sperare di non rimanere abbagliato dalla brillante intelligenza del
signor Pascal, che tuttavia incantava e conquistava tutti quanti. Ammetteva che
parlava molto rettamente; e riconosceva volentieri la forza della sua
intelligenza e dei suoi discorsi. [Ma diceva che non vi scorgeva nulla di
nuovo]. Tutto quanto il signor Pascal gli diceva, lo aveva già letto prima di
lui in sant’Agostino; e, rendendo giustizia a tutti, diceva: “Il signor Pascal
è estremamente degno di stima, perché, pur non avendo letto i Padri della
Chiesa, ha trovato da sé, con la perspicacia della sua mente, le stesse verità
già trovate da loro. A lui sembrano stupefacenti perché non le ha lette in
nessuna parte; ma noi siamo avvezzi a incontrarle a ogni passo nei nostri
libri”. Cosí quel saggio ecclesiastico, stimando che gli antichi non avessero
meno lumi dei moderni, vi si atteneva, e apprezzava molto il signor Pascal per
il fatto che andava d’accordo in ogni cosa con sant’Agostino.
Il modo abituale di condursi del
signor de Saci nel conversare con gli altri era di adeguare i propri discorsi a
coloro con cui s’intratteneva. Se, per esempio, conversava col signor di
Champaigne, gli parlava di pittura. Se vedeva il signor Hamon, lo intratteneva
di medicina. Coloro che coltivavano il vigneto, le piante, i cereali, gli
dicevano tutto quel che vi bisognava osservare. Tutto gli serviva per passare
súbito a Dio e per farci passare gli altri. Egli credette, dunque, opportuno
mettere il signor Pascal sul suo terreno e parlargli delle letture di filosofia
di cui si occupava maggiormente. Lo portò su questo terreno sin dalle loro
prime conversazioni. Il signor Pascal gli disse che le sue letture abituali
erano state Epitteto e Montaigne e gli fece grandi elogi di quei due autori. Il
signor de Saci, che aveva sempre creduto di doverli leggere poco, pregò il
signor Pascal di parlargliene a fondo.
“Epitteto – gli disse il signor
Pascal – è uno dei filosofi che meglio ha conosciuto i doveri dell’uomo. Vuole,
anzitutto, che esso consideri come suo oggetto principale Dio; che sia convinto
che egli governa tutte le cose con giustizia; che si sottometta di cuore a lui
e che lo segua volontariamente in ogni cosa, dacché egli non fa nulla se non
con grandissima saggezza: questa disposizione d’animo farà cessare tutte le
lamentele e tutte le mormorazioni e preparerà il suo spirito a soffrire in pace
tutti gli avvenimenti piú incresciosi. “Non dite mai – dice – ‘Ho perduto
questo’; dite piuttosto: ‘L’ho reso. Mio figlio è morto: l’ho reso. Mia moglie
è morta: l’ho resa’”. Cosí dei beni e di tutto il resto. “Ma chi me lo toglie è
un malvagio, – dite voi. – Perché v’inquietate di chi sia colui mediante il
quale chi ve l’ha prestato adesso ve lo richiede? Finché ve ne consente l’uso,
abbiatene cura come di un bene che appartiene ad altri, come un viaggiatore
considera se medesimo in un albergo. Voi non dovete desiderare che le cose
avvengano come volete voi, ma che avvengano come avvengono. Ricordatevi – dice
altrove – che siete qui come un attore e che rappresentate il personaggio di
una commedia, quale piace al direttore di assegnarvelo. Se vi dà una parte
corta, recitatela corta; se lunga, recitatela lunga; se vuole che recitiate la
parte di uno straccione, dovete rappresentarla con la maggior naturalezza
possibile; e cosí via. Tocca a voi recitar bene la parte che vi è assegnata; ma
la sua scelta spetta a un altro. Abbiate ogni giorno davanti agli occhi la
morte e i mali che vi sembrano piú intollerabili; e non avrete mai pensieri
bassi né desidererete alcunché con eccesso”.
“Epitteto mostra anche in mille
maniere ciò che deve fare l’uomo. Vuole che sia umile, che nasconda i suoi
buoni proponimenti, soprattutto da principio, e che li adempia in segreto:
nulla li guasta maggiormente che il metterli in mostra. Egli non cessa di
ripetere che tutto lo studio e il desiderio dell’uomo debbono essere di
riconoscere la volontà di Dio e di seguirla.
“Ecco, signore – disse il signor
Pascal al signor de Saci – i lumi di quel grande spirito, che ha conosciuto
cosí bene i doveri dell’uomo. Oserei dire che meriterebbe di essere adorato, se
ne avesse conosciuto altrettanto bene l’impotenza; perché bisognava essere Dio
per apprendere agli uomini l’una e l’altra cosa. Perciò, siccome era terra e
cenere, dopo aver cosí bene compreso i nostri doveri, ecco come egli si perde
nella presunzione di quel che si può. Dice che Dio ha dato all’uomo i mezzi per
adempiere tutti i suoi obblighi; che questi mezzi sono in nostro potere; che
bisogna cercare la felicità nelle cose che sono in poter nostro dacché Dio ce
le ha date a questo scopo; che bisogna vedere quel che c’è in noi di libero;
che i beni di fortuna, la vita, la pubblica considerazione non sono in nostro
potere e, quindi, non conducono a Dio; ma che la nostra mente non può essere
costretta a credere quel che sa essere falso né la volontà ad amare quel che sa
renderla infelice; che queste due facoltà sono, pertanto, libere e che per mezzo
loro noi possiamo renderci perfetti; che con esse l’uomo può perfettamente
conoscere Dio, amarlo, obbedirgli, piacergli, guarire da tutti i vizi,
acquisire tutte le virtú, e rendersi cosí santo e compagno di Dio. Tali
princípi di diabolica superbia lo conducono ad altri errori: ad affermare, ad
esempio, che l’anima è una parte della sostanza divina; che il dolore e la
morte non sono mali; che, quando si è talmente perseguitati da credere che Dio
ci chiami a sé, ci si può uccidere, e altri ancora.
“Quanto a Montaigne, – del quale
volete egualmente che vi parli, – egli, essendo nato in uno Stato cristiano, si
professa cattolico; e in ciò nulla ha di speciale. Ma, siccome ha cercato quale
morale la ragione dovrebbe dettare senza la luce della fede, ha assunto i
propri principî conforme a quest’ipotesi; e cosí, considerando l’uomo come
privo di qualsiasi rivelazione, ecco come discorre. Egli sottopone tutte le
cose a un dubbio universale e talmente generale che questo dubbio si volge
contro di sé, cioè se dubiti, e, dubitando persino di quest’ultima
supposizione, la sua incertezza si avvolge su se stessa in un circolo perpetuo
e senza sosta: opponendosi in egual modo a quanti affermano che tutto è incerto
e a quanti affermano che non tutto è tale, perché egli non vuol affermare
nulla. In questo dubbio di sé e in questa ignoranza che si ignora, e ch’egli
chiama la sua “forma dominante”, sta l’essenza del suo pensiero, che non ha
potuto esprimere mediante nessun termine positivo. Infatti, se afferma di
dubitare, si tradisce affermando almeno questo: che dubita; e, siccome questo è
formalmente contrario alla sua intenzione, egli non ha potuto spiegarsi se non
in forma interrogativa. Dimodoché, non volendo dire: “Non so”, dice: “Che cosa
so?”, e ne fa il suo motto, mettendolo sotto bilance che, pesando i
contraddittorî, si trovano in perfetto equilibrio: ossia, è un puro pirroniano.
Sopra questi principî vertono tutti i suoi discorsi e tutti i suoi Saggi;
ed è la sola cosa che pretenda di stabilire fermamente, sebbene non ne
manifesti sempre l’intenzione. Egli vi distrugge a poco a poco tutto quel che
tra gli uomini passa per maggiormente certo: non per stabilire l’opposto con
certezza, – solo di questa è nemico, – bensí per far vedere solamente che,
essendo eguali le apparenze da una parte e dall’altra, non si sa su che cosa
assidere la propria credenza.
“In questa disposizione di
spirito, egli si prende giuoco di tutte le certezze: per esempio, combatte
coloro che hanno creduto di istituire in Francia un gran rimedio contro i
processi con il gran numero e la pretesa giustizia delle leggi: come se si
potessero estirpare le radici dei dubbi da cui nascono i processi e ci fossero
dighe capaci di contenere il torrente dell’incertezza e di incarcerare le
congetture! Quando dice che tanto varrebbe sottomettere la propria causa al
primo che passa che a giudici armati di tanti decreti, egli non pretende che si
debba mutare l’ordinamento dello Stato: non ha tanta ambizione, né pensa che la
sua opinione sia la migliore, anzi pensa che non ce ne sia nessuna di buona. Lo
fa soltanto per provare la vanità delle opinioni piú accreditate, mostrando che
l’abolizione di tutte le leggi porterebbe a diminuire il numero delle liti
meglio di questa moltitudine di leggi, che serve solamente ad aumentarle,
perché le difficoltà crescono via via che vengon soppesate e le oscurità si
moltiplicano per opera dei commentarî; e che il mezzo piú sicuro per intendere
il senso di un discorso è di non analizzarlo e di prenderlo cosí come si
presenta: se lo si esamina solo un po’, ogni chiarezza svanisce. Cosí egli
giudica a caso di tutte le azioni degli uomini e dei fatti storici, ora in un
modo ora in un altro, seguendo liberamente la sua prima opinione e senza
assoggettare il proprio pensiero alle norme della ragione, i cui parametri son
sempre falsi: felice di far vedere con il proprio esempio le contraddizioni di
una stessa mente. Conforme a questo genio liberissimo, per lui è uguale vincere
o no nelle dispute, avendo sempre, in entrambi i casi, un mezzo di far vedere
la debolezza delle opinioni: insediato con tale superiorità in quel dubbio
universale da rafforzarsi egualmente sia con la vittoria sia con la sconfitta.
“Da questa posizione, pur cosí
fluttuante e vacillante, egli combatte con invincibile fermezza la pretesa
degli eretici del suo tempo di conoscere essi soli il vero senso della
Scrittura; ed egualmente da essa fulmina ancor piú vigorosamente l’orribile
empietà di coloro che osano sostenere che Dio non esiste. Egli li attacca in
modo particolare nell’Apologie de Raymond de Sebonde; e,
trovandoli volontariamente privi di ogni rivelazione e ridotti ai soli lumi
naturali, esclusa ogni fede, domanda loro con quale autorità s’impanchino a
giudicare di quell’Essere supremo, che è per definizione infinito, essi che non
conoscono veramente nemmeno le infime cose della natura! Chiede loro su quali
principî si fondino; intima loro di mostrarli; esamina tutti quelli che possono
addurre e vi penetra cosí addentro, con il talento in cui eccelle, da mostrare
la debolezza di tutti quelli che passano per i piú manifesti e i piú fermi.
Domanda se l’anima conosca qualche cosa e conosca se stessa; se sia sostanza o
accidente, corporea o spirituale; che cosa sia ognuna di queste cose e se non
ci sia nulla che non sia di uno di questi ordini; se conosca il proprio corpo e
che cos’è la materia e se possa discernere tra l’innumerevole varietà dei
corpi; come possa ragionare, se è materiale; e come possa essere unita a un
particolare corpo e risentirne le passioni, se è spirituale; quando essa abbia
cominciato a essere, se insieme col corpo o prima, e se finisca con esso o no;
se non s’inganni mai; se sappia di errare, dacché l’essenza dell’errore sta nel
non avvedersene; se, nei suoi momenti di obnubilamento, non creda che due piú
tre fanno sei con la stessa fermezza con cui, un momento dopo, crede che
facciano cinque; se gli animali ragionino, pensino, parlino; e chi possa dire
che cos’è il tempo, che cos’è lo spazio o estensione, il movimento, l’unità,
tutte cose che ci circondano e che sono affatto inesplicabili; che cosa siano
la salute, la malattia, la vita e la morte, il bene e il male, la giustizia e
il peccato, di cui parliamo continuamente; se ci siano in noi principî di
verità; se quelli nei quali crediamo, e chiamiamo “assiomi” o “nozioni comuni”
perché presenti in tutti gli uomini, siano conformi alla verità essenziale; e,
dacché noi sappiamo solo in virtú della fede che un Essere assolutamente buono
ce li ha dati, avendoci creati per la verità, chi saprà dire, senza il lume
della fede, se, essendo stati formati a caso, tali principî non siano invece
incerti o, se essendo stati formati da un essere fallace e malvagio, questi non
ce li abbia dati falsi allo scopo d’ingannarci: mostrando in questo modo che
Dio e la verità sono inseparabili e che se uno di essi è o non è, è certo o
incerto, anche l’altro è necessariamente tale. Chi sa, dunque, se il senso
comune, che noi consideriamo come giudice del vero, ne abbia l’essere da chi
l’ha creata? Di piú: chi sa che cosa sia la verità e come si possa affermare di
possederla se non la si conosca? Chi sa, anzi, che cosa sia l’essere, che è
impossibile definire, poiché non c’è nulla di piú generale e, per spiegarlo,
bisognerebbe servirsi súbito di questo stesso termine, dicendo: “È...” E,
dacché non sappiamo che cosa siano anima, corpo, spazio, tempo, movimento,
verità, bene, e neppure essere, né sappiamo spiegare l’idea che ce ne facciamo,
come possiamo esser sicuri che essa sia la medesima in tutti gli uomini: visto
che non ne abbiamo altro indizio se non l’uniformità delle conseguenze, la
quale non è sempre un segno dell’uniformità dei principî? Questi, infatti,
possono essere assai diversi e condurre nondimeno alle stesse conseguenze; e
ognun sa che il vero si conclude spesso dal falso.
“Infine, egli esamina a fondo
tutte le scienze e la geometria, di cui mostra l’incertezza negli assiomi e nei
termini che non definisce, come lo spazio, il movimento, ecc.; e la fisica, in
maggior numero di modi; e la medicina in un’infinità di modi; e la storia, la
politica, la morale, la giurisprudenza e le altre discipline. Dimodoché si
resta convinti che, nella nostra presente condizione, noi non pensiamo in
maniera migliore che in sogni da cui ci destiamo solo nel momento della morte,
e durante i quali possediamo i principî del vero altrettanto poco che nel sonno
naturale. In cotal guisa, egli malmena con tanta forza e crudeltà la ragione
priva della fede, facendola dubitare se sia ragionevole e se gli animali siano
o no tali, da farla discendere dall’altezza che essa si era attribuita e da
metterla, per graziosa concessione, alla pari con i bruti, senza permetterle di
uscire da questa cerchia sino a quando non sia stata istruita dal suo Creatore
del suo vero posto, che essa ignora, minacciandola, se si lamenta di ciò, di
collocarla sotto ogni cosa (il che è altrettanto facile del contrario) e
dandole facoltà di agire solo per riconoscere con sincera umiltà la propria
debolezza, invece di elevarsi con sciocca insolenza”.
Il signor de Saci, cui pareva di
vivere in un paese nuovo e di ascoltare una nuova lingua, andava ripetendo tra
sé le parole di sant’Agostino: “O Dio di verità! coloro che conoscono tali
sottigliezze di ragionamento ti sono forse piú graditi?”. Egli compiangeva quel
filosofo che si pungeva e si dilaniava in ogni sua parte con le spine che lui
stesso si faceva, come sant’Agostino dice di sé quand’era in uno stato simile.
Dopo aver pazientato abbastanza a lungo, disse al signor Pascal:
“Vi sono grato, signore: sono
sicuro che se avessi praticato a lungo Montaigne, non lo conoscerei cosí bene
come dopo questa conversazione con voi. Quell’uomo dovrebbe augurarsi che lo si
conoscesse soltanto attraverso la vostra esposizione dei suoi scritti; e
potrebbe dire con sant’Agostino: “Ibi me vide, attende”. Son certo che era un
uomo intelligente; ma non so se voi non gli prestiate maggior ingegno di quello
che aveva, con la vostra concatenazione cosí rigorosa dei suoi concetti. Potete
immaginare che, avendo trascorso la mia vita come ho fatto, non mi hanno
consigliato di leggere quello scrittore, le cui opere nulla hanno di quello che
noi dobbiamo cercare nelle nostre letture, secondo la regola di sant’Agostino,
perché le sue parole non sembrano scaturite da un gran fondo di umiltà e di pietà.
Si può forse perdonare a quei filosofi del passato chiamati “accademici” di
revocare in dubbio ogni cosa. Ma che bisogno aveva Montaigne di divertirsi a
rinnovare una dottrina che passa ora tra i cristiani per insensata? È il
giudizio che di loro dà sant’Agostino, seguendo il quale si può dire di
Montaigne: “Mette in disparte tutto quel che la fede insegna; cosí noi, che
abbiamo la fede, dobbiamo mettere da parte tutto quel che egli dice”. Non
biasimo l’ingegno di quello scrittore: è un gran dono di Dio; ma egli poteva
servirsene meglio e farne sacrificio a Dio piuttosto che al demonio. A che
serve un bene, quando se ne fa un cosí cattivo uso? “Quid proderat, ecc.?”,
dice di sé quel santo dottore, parlando di come era prima della sua
conversione. Voi, signore, siete fortunato di esservi innalzato sopra codeste
persone, chiamate “dottori”, immersi nell’ebbrezza della scienza, ma dal cuore
vuoto di verità. Dio ha profuso nel vostro cuore dolcezza e attrattive diverse
da quelle che trovavate in Montaigne. Vi ha richiamato da quei piaceri
pericolosi, “a jucunditate pestifera”, come dice sant’Agostino, il quale rende
grazie a Dio di avergli perdonato i peccati commessi gustando troppo le vanità.
Sant’Agostino è tanto piú credibile in quanto ebbe anche lui, un tempo, simili
opinioni; e, come voi dite di Montaigne che egli combatté con quel suo dubbio
universale gli eretici del suo tempo, cosí grazie a quel medesimo dubbio degli
accademici, sant’Agostino abbandonò l’eresia dei Manichei. Dal giorno in cui
appartenne a Dio, egli rinunziò a quelle vanità, che chiama “sacrileghe”.
Riconobbe con quanta saggezza san Paolo ci ammoní di non lasciarci sedurre da
quei discorsi. Egli ammette, infatti, che c’è in essi una certa attrattiva, che
ci conquide: qualche volta si credon vere certe cose perché vengon dette con
eloquenza. Sono cibi pericolosi, – dice, – ma serviti in bei piatti; e, invece
di nutrire il cuore, lo vuotano. Si somiglia allora a persone che dormano e
credano di mangiare dormendo: quei cibi immaginari lascian vuoti come prima”.
Il signor de Saci disse al signor
Pascal molte cose del genere. Al che il signor Pascal gli rispose che, se egli
lo complimentava di conoscere bene Montaigne e di saper esporlo bene, lui
poteva dirgli senza complimenti che possedeva molto meglio sant’Agostino e che
sapeva presentarlo molto meglio, sebbene con poco vantaggio del Montaigne. Gli
dichiarò di sentirsi profondamente edificato della solidità di tutto quanto il
signor de Saci gli aveva detto; tuttavia, essendo ancora tutto pieno del suo
autore, non poté trattenersi e aggiunse:
“Signore, vi confesso che non
posso vedere senza gioia in quell’autore la superba ragione cosí
invincibilmente malmenata con le sue stesse armi e quella ribellione cosí
sanguinosa dell’uomo contro l’uomo, che dalla società con Dio, cui esso
pretendeva d’innalzarsi con le massime della sua debole ragione, lo fa
precipitare sino alla condizione dei bruti. Anzi, avrei amato con tutto il
cuore il ministro d’una cosí grande vendetta, se, essendo egli discepolo della
Chiesa per la fede, ne avesse seguito le regole della morale, inducendo gli
uomini, che aveva cosí crudelmente umiliati, a non irritare con nuovi crimini
colui che solo li può trar fuori da quei crimini che egli ci ha convinti di non
poter nemmeno conoscere.
“Sennonché si conduce, invece,
come un pagano. Dal principio che fuori della fede tutto è incerto, e
considerando da quanto tempo si cerca il vero e il bene senza compier nessun
progresso verso la tranquillità dell’animo, egli conclude che bisogna lasciarne
la cura agli altri, e nel frattempo starsene in quiete, sfiorando leggermente
quei problemi per timore di sprofondarcisi insistendo; e prendere il vero e il
bene come si presentano a primo aspetto, senza serrarli da presso, perché son
tanto poco solidi che, se appena si stringono un po’, sfuggono tra le dita e
lascian vuota la mano. Perciò egli segue le testimonianze dei sensi e le
nozioni comuni, perché dovrebbe farsi violenza per smentirle, e non sa che cosa
ci guadagnerebbe a farlo, dacché ignora dove sia il vero. Cosí fugge il dolore
e la morte, perché il suo istinto lo spinge a farlo, e non vuol resistere per
la medesima ragione; ma senza concluderne che siano veramente mali, non
fidandosi un granché di quei moti naturali di timore, dacché ne sentiamo altri
di piacere che accusiamo di essere cattivi, sebbene la natura affermi il
contrario. Cosí, nella sua condotta non c’è nulla di stravagante: egli si
conduce come gli altri; e tutto quanto essi fanno con la stolta convinzione di
seguire il vero bene egli lo fa per un altro principio: ossia, che essendo
eguali le probabilità da una parte e dall’altra, l’esempio e la comodità sono
le forze che lo trascinano in un certo senso.
“Segue pertanto le usanze del suo
paese, perché la consuetudine lo spinge a farlo; monta sul suo cavallo come uno
che non sia filosofo, perché la bestia lo sopporta, ma senza credere di averne
il diritto, non sapendo se quella bestia non abbia, viceversa, quello di
servirsi di lui. Si fa talvolta violenza per evitare certi vizi; e osserva la
fedeltà coniugale a cagione della pena che segue i disordini; ma se la pena che
questo gli costa superasse quella che evita, accetterebbe senza difficoltà
quest’ultima, poiché la regola della sua vita è sempre la comodità e la
tranquillità. Egli respinge, quindi, molto lontano quella virtú stoica che vien
dipinta con un aspetto severo, lo sguardo corrucciato, i capelli irti, la
fronte corrugata e madida, in una positura penosa e rigida, lontana dagli
uomini, assorta in un cupo silenzio e sola sulla sommità d’una roccia:
fantasma, dice, capace di spaventare i bambini e che lassú non fa, con un
travaglio continuo, se non cercare la tranquillità cui mai non perviene. La sua
è ingenua, familiare, spassevole, allegra e, per cosí dire, folleggiante: segue
quel che l’attrae, e scherza con negligenza sugli accidenti buoni o cattivi
della vita, coricata mollemente in seno all’ozio tranquillo, da cui mostra agli
uomini che cercano la felicità con tanta pena che essa si trova soltanto là e
che l’ignoranza e la mancanza di curiosità sono due dolci guanciali per una
testa ben fatta, com’egli stesso dice.
“Non posso nascondervi, signore,
che, leggendo questo autore e confrontandolo con Epitteto, mi sono reso conto
che essi sono sicuramente i due piú grandi difensori delle due piú celebri
sètte del mondo, le sole conformi alla ragione. Infatti, non si può seguire se
non una di queste due strade: o c’è un Dio, e allora si pone in lui il sommo
bene; o non è certo che sia, e allora è incerto anche il vero bene, poiché
l’uomo ne è incapace.
“Ho provato un grandissimo
piacere nel notare, in quei diversi ragionamenti, in che cosa l’uno o l’altro
sono pervenuti a conformarsi in una certa misura alla vera saggezza, che hanno
tentato di conoscere. Poiché se è gradevole osservare nella natura il desiderio
che essa ha di rappresentare Dio in tutte le sue opere, in cui se ne scorge
qualche impronta, essendone le immagini, quanto è piú giusto considerare nelle
produzioni degli spiriti gli sforzi che essi compiono per imitare la verità
essenziale, anche fuggendola, e osservare in che cosa la attingono e in che se
ne allontanano, come ho cercato di fare in questo mio esame!
“È vero, signore, che voi mi
avete testè mostrato in maniera mirabile la scarsa utilità che i cristiani posson
trarre da queste letture filosofiche. Non tralascerò tuttavia, con il vostro
permesso, di dirvi ancora quel che ne penso, pronto però a rinunziar a tutti i
lumi che non vengano da voi; e in ciò avrò il vantaggio o di aver incontrato
per un caso avventurato la verità o di riceverla in modo sicuro da voi. A me
sembra che la fonte degli errori di quelle due sètte sia di non aver saputo che
la condizione presente dell’uomo è diversa da quella in cui esso fu creato:
dimodoché l’una, osservando alcuni segni della sua originaria grandezza e
ignorandone la corruzione, ha considerato la natura umana come sana e senza
bisogno di riparatore, il che la conduce al colmo della superbia; mentre
l’altra, osservando la miseria presente e ignorando la dignità originaria,
considera la natura come necessariamente inferma e irreparabile, il che la fa
cadere nella disperazione di arrivare a un vero bene e di lí in un’estrema
ignavia. Cosí, queste due condizioni, che bisognava conoscere insieme per
vedere la verità nella sua interezza, conosciute separatamente, conducono di
necessità a uno di questi due vizi, l’orgoglio e l’accidia, in cui si trovano
inevitabilmente tutti gli uomini prima della grazia, perché, se non rimangono
nei loro disordini per ignavia, ne escono solo per vanità: tanto è vero quel
che mi avete detto di sant’Agostino e che mi sembra di grande portata. Lo si
riscontra, infatti, in mille guise.
“A causa di questi lumi
imperfetti, l’uno, conoscendo i doveri dell’uomo e ignorandone l’impotenza, si
perde nella presunzione; e l’altro, conoscendone l’impotenza e non i doveri, si
abbatte nell’accidia: dimodoché sembrerebbe che, essendo l’uno nella verità
dove l’altro è nell’errore, unendoli insieme si costituirebbe una morale
perfetta. Ma, invece di questa pace dalla loro unione nascerebbero una guerra e
una distruzione generale: perché, affermando l’uno la certezza e l’altro il
dubbio, l’uno la grandezza e l’altro la debolezza dell’uomo, essi rovinano la
verità altrettanto che le falsità l’uno dell’altro. Sicché non possono né
sussistere da soli a causa dei loro difetti né unirsi a causa delle loro
opposizioni e, quindi, vanno in frantumi e si annientano per far posto alla
verità del Vangelo. Solo questa concilia le contrarietà con un’arte affatto
divina e, unendo tutto quanto è vero e scacciando tutto quanto è falso, ne fa
una saggezza veramente celeste, in cui si conciliano quegli opposti,
incompatibili in quelle dottrine umane. E la ragione di ciò che è quei saggi
del mondo pongono gli opposti nel medesimo soggetto: l’uno attribuendo la
grandezza alla natura e l’altro la debolezza a questa stessa natura, il che non
può essere. Mentre la fede c’insegna a situarle in soggetti differenti: tutto
quanto c’è di infermo appartenendo alla natura, tutto quanto c’è di valido appartenendo
alla grazia. Ecco l’unione stupefacente e nuova che soltanto Dio poteva
insegnare e che soltanto lui poteva compiere, e che non è se non un’immagine e
un effetto dell’unione ineffabile di due nature nella sola persona di un
Uomo–Dio.
“Vi chiedo scusa, signore, se
davanti a voi trascorro cosí nella teologia, invece di rimanere nell’àmbito
della filosofia, cui solo mi dovevo attenere. Ma il mio ragionamento mi ci ha
condotto a poco a poco; ed è difficile non entrarci, di qualunque verità si
parli, perché essa è il centro di tutte le verità: il che si manifesta in
questo caso perfettamente, dacché essa racchiude in maniera cosí evidente tutte
quelle che si trovano in quelle opinioni. Cosí non vedo come ognuno di loro
potrebbe rifiutarsi di seguirla. Infatti, se sono pieni del concetto della
grandezza dell’uomo, che cosa possono aver immaginato in proposito che non
resti inferiore alle promesse del Vangelo, che non sono se non il degno prezzo
della morte di un Dio? E se si compiacciono invece di vedere l’infermità
dell’umana natura, i loro concetti non eguagliano certo quelli della vera
debolezza del peccato, di cui quella stessa morte costituí il rimedio. Quindi,
tutti ci trovano piú di quanto non abbiamo desiderato e, quel che è mirabile,
vi si trovano uniti, essi che non si potevano accordare su un piano
infinitamente inferiore”.
Il signor de Saci non poté
esimersi dal dire al signor Pascal che era stupito di come sapeva presentare le
cose; ma dichiarò in pari tempo che non tutti possedevano lo stesso segreto di
fare su quelle letture riflessioni cosí sagge ed elevate. Gli disse che
somigliava a quei medici abili che, per il modo ingegnoso di preparare i piú
pericolosi veleni, ne sanno trarre i maggiori rimedi. Aggiunse che, sebbene si
rendesse conto, da quel che gli aveva detto, che quelle letture gli erano
utili, non poteva credere però che tali potessero essere a molte persone il cui
spirito ne sarebbe stato un po’ sviato e non sarebbe stato abbastanza elevato
da leggere quegli autori e giudicarne, e saper cavar fuori le perle dal letame,
“aurum ex stercore”, come diceva un Padre. Il che si poteva applicare ancor
meglio a quei filosofi, il cui letame, con le sue nere esalazioni, potrebbe
oscurare la fede vacillante dei lettori. Perciò egli avrebbe sempre consigliato
costoro di non esporsi con leggerezza a quelle letture, per paura che con quei
filosofi si perdessero e diventassero preda del demonio e pastura dei vermi,
secondo il linguaggio della Scrittura, al pari di quei filosofi.
“Quanto all’utilità di tali
letture – disse il signor Pascal – vi dirò con molta semplicità il mio parere.
In Epitteto trovo un’arte incomparabile di turbare la sicurezza di coloro che
la cercano nelle cose esteriori e di obbligarli a riconoscere che sono veri e
propri schiavi e miseri ciechi; e che, se non si dànno senza riserva a Dio
solo, è impossibile che trovino altra cosa fuor che l’errore e il dolore, da
cui rifuggono. Quanto a Montaigne, egli è incomparabile nel confondere
l’orgoglio di coloro che, prescindendo dalla fede, si vantano di conseguire la
vera giustizia; nel disingannare coloro che si attaccano alle loro opinioni e
credono di trovare nelle scienze verità incontrovertibili; e nel convincere
talmente la ragione della pochezza dei suoi lumi e dei suoi errori che è
difficile, quando si faccia buon uso di quei principî, esser tentato di trovare
nei misteri della fede punti che vi repugnino. Infatti, l’intelligenza ne esce
talmente sconfitta da restare ben lontana dal voler giudicare – come gli uomini
comuni fanno troppo spesso – se l’Incarnazione o il mistero dell’Eucaristia
siano possibili.
“Ma se Epitteto combatte
l’accidia, conduce all’orgoglio: dimodoché può tornar nocivo a coloro che non
siano convinti che anche la piú perfetta giustizia, quando non abbia il suo
fondamento nella fede, è corrotta. E Montaigne è assolutamente pernicioso per
coloro che abbiano qualche inclinazione verso l’empietà e i vizi. Ecco perché
tali letture vanno regolate con molta cura e discrezione, badando alla
condizione e ai costumi di coloro cui si consigliano. Mi sembra tuttavia che,
unendole insieme, non possano dare frutti molto cattivi, perché l’una si oppone
al male dell’altra. Non che possano dare la virtú, ma solo turbare nei vizi:
l’anima trovandovisi combattuta da quei contrari, di cui l’uno caccia
l’orgoglio e l’altro l’accidia, e non potendo riposare in nessuno di quei vizi
con i suoi ragionamenti, e neppure fuggirli tutti”.
Cosí quelle due persone di tanto
elevata intelligenza finirono con il mettersi d’accordo sul tema della lettura
di quei filosofi e si ritrovarono nella medesima conclusione, cui giunsero
tuttavia in maniera un po’ differente: il signor de Saci immediatamente, grazie
alla chiara visione del cristianesimo; e il signor Pascal dopo molti giri,
seguendo i principî di quei filosofi.
B. Pascal, Pensieri, a cura
di Paolo Serini, Einaudi, Torino, 1967, pagg. 423–439